Posted by on 29 novembre 2014

 
 
 
STORIE VERE, storie che si riescono a raccontare perchè si vivono.
La giornalista del nostro team “ROSA”, approfitta dell’attesa forzata, entra nei sobborghi di Vancouver e …Grand Union Hotel è un nome che potrebbe evocare un posto elegante.Me lo immagino con i tappeti rossi, con il bancone del bar in ottone, i tavoli bassi di marmo e magari pure le sedie di velluto imbottito.Il Grand Unione Hotel, a Vancouver, è invece il peggior bar che si possa immaginare.C’è buio, anche se tutte le luci sono accese. C’è puzza di fumo, anche se dentro non fuma nessuno.E’ il peggiore bar di Eastend Hastings, il peggior quartiere della città.

Nasce all’incrocio tra due strade in cui Vancouver sembra finire.

A quell’angolo c’è solo droga, tantissima. C’è disperazione, e la vedi nelle facce di tutti quelli che incontri, appoggiati ai muri, che nemmeno ti vedono.

Noi ci siamo passate per caso, quando Gastown, una sorta di Disneyland chic per turisti è improvvisamente sfumata sotto un semaforo, in mezzo ad una strada, dove i tavolini verniciati dei bar sono rimpiazzati da gente stesa per terra, appoggiata ai pali, rovinata dall’eroina, dal crack, dalla vita.

Il Grand Union Hotel è il centro di questo mondo. O forse è solo un altro di mondo.

Siamo andate, per due pomeriggi di fila.

La prima volta solo io e Valeria.
Passandoci davanti abbiamo sentito la stessa cosa, il bisogno di tornare indietro, un’attrazione inderogabile.

La seconda volta perché la prima non era stata sufficiente.

Intorno a quei tavoli, aggrappati al bancone, ci sono tante di quelle storie da raccontare che non basterebbe un libro e forse nemmeno uno capace di scriverlo.

E comunque, siamo tornate.
Io, Valeria, Raffaella. Con la macchina fotografica un po’ nascosta e con una curiosità non morbosa, solamente umana.

Ci sono tante donne, sfatte. Che lavorano se la sera prima hanno bevuto un bicchiere meno del troppo. Ci sono donne che forse non lavorano da millenni. Altre che non sono donne ancora ma che probabilmente non lavoreranno mai.

C’era Brenda, che mi ha raccontato che fuori dal bar, all’angolo tra le due strade, vendono la marijuana più buona del mondo.
Mi ha fatto vedere, quasi fiera, la sua tessera, quella della Real Compassion Society, a poche centinaia di metri da lì.
E’ il posto in cui per cinque dollari ti danno una dose di marija, a scopi terapeutici.
La sua terapia non me l’ha spiegata, credo però che i cinque dollari non le siano mai stati sufficienti.

Accanto a Brenda c’era Joy. Di quello che ha detto si è capito poco, sbiascicava ogni parola e il mio inglese zoppicante mi ha messo un muro davanti. Una cosa, però, era chiara. Ha detto “divertitevi in questo viaggio, non fossi qui verrei anch’io”. Come se l’essere qui fosse una condizione di vita permanente, da chissà quanto tempo.

E quando le ho chiesto se la potevo fotografare, si è messa in posa, a modo suo.

Poi c’era questa donna, il nome non l’ha detto.
Era seduta vicino al suo migliore amico, un settantenne ammaccato con i capelli grigi fuori dal berretto. Aveva una faccia simpatica e faceva finta di parlare francese.
Accanto un deambulatore, sopra una coperta.

Bevevano birra, entrambi. Lei due contemporaneamente.

Ha preso delle sedie, ci ha portato via da Brenda e Joy, ci ha raccontato che lavora per un’associazione che aiuta donne in difficoltà.

Aveva quegli occhi che ti lasciano la stessa impressione di un piatto buonissimo a cui manca qualcosa che non sei in grado di riconoscere.
Occhi tristi, però forti. Persi, ma con una luce che poteva sembrare speranza.
Quegli occhi che guardi e non sai capire che cosa vogliano dire però capisci che in un attimo potrebbero precipitare da una parte o dall’altra della linea.

Abbiamo bevuto due birre insieme a loro, abbiamo parlato anche con il proprietario che sembrava non capire più di tanto ma nemmeno preoccuparsene.

Mi ha fatto entrare dietro il bancone per assecondare la mia voglia di scattare una foto che rendesse l’idea dell’universo parallelo in cui una birra costa meno di tre dollari e le giornate passano così, con un gomito sul tavolo e la mano stretta su un bicchiere.

L’ho scattata, l’impressione però non è uscita.

Alla fine, verso le sette, quando il tasso alcolico di tutti iniziava a salire troppo e il buio fuori a scendere alla stessa velocità, abbiamo deciso di andare.

C’è stato il tempo, però, di una di quelle scene che aprono un mondo dentro il mondo quando pensi che ormai siano finiti.

Abbiamo ritrovato Jhon, un ragazzo nero che ride in continuazione e che è stato il nostro primo incontro.

Quello che ci ha decantato, pure lui, le qualità della marijuana di Hastings per poi rimproverarci perché siamo uscite dal Grand Hotel con il bicchiere in mano.

Ci ha viste, ed è stato come se avesse incontrato amici persi da tempo.

Ha ballato con Valeria, in mezzo al bar, in mezzo a quell’umanità disperata.
Ed era una di quelle hit commerciali che in un posto così ti sembra strano poter sentire. Come se per osmosi anche la musica potesse essere solo decadente.

Ho fotografato anche lui. Anche lui si è messo in posa, come se fosse normale che tre donne, italiane, con un Canon al collo, avessero deciso di passare una giornata in quel bar, in quella zona.

Alla fine siamo uscite. Ancora con quella sensazione di dover rimanere lì, di farsi spiegare, di provare a raccontare.

Mentre avevamo già un piede fuori dalla porta, un ragazzo somalo, senza denti, novecento dollari di affitto per un buco di stanza, ha preso Valeria per un braccio.

“State attente qui fuori per strada. E’ pericoloso”.

Siamo state attente, non ci è successo nulla se non il fatto di aver incrociato un pezzo di Vancouver che mai avremmo visto se le nostre jeep fossero arrivate, i programmi rispettati, l’istinto non assecondato.

E non si vuole certo dire che il Grand Union Hotel ci sia solo qui, all’incrocio tra queste due vie che ci hanno descritto come “un underground in cui tutto costa poco”. Il Grand Union Hotel esiste in ogni città del mondo ed è quel posto che i turisti non vedono, che non fotografano, di cui non parlano.

Un posto in cui tutto costa poco. La birra tre dollari e la vita spesso molto meno.

Alice 

web: 7milamiglialontano.com

web: 7milamiglialontano.org

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