Posted by on 18 marzo 2016

 
 
 

Chicken Story di Pino Dal Gal  ( 1976-2016) 

Metafora di una faccia della realtà del vivere. Una società oligarchica, programmata, vessata. Un posto dove non c’è spazio per l’individuo, per la libertà. Gli effetti sono devastanti. Soprusi, violenze, massacri organizzati; un incubo che fa sentire la sua eco, da qualche parte, nel mondo, sempre. Il ritratto finale chiede giustizia            (Pino Dal Gal) 

Testo di Tania Piazza  (2016)

Qualche sera fa, durante un incontro di presentazione del mio ultimo libro, un signore assai distinto (che poi avrei scoperto essere un poeta ultrasettantenne con un passato da fisico, quindi un uomo nato nella scienza e migrato poi alla letteratura) mi chiede di motivare la presenza della parola – nebbia – all’interno del titolo del romanzo. Io gli spiego che ciò che intendo evocare non è il fenomeno meteorologico, ma piuttosto quella sensazione di oblio a cui ci si lascia andare volontariamente, a volte, preferendo una fase di stallo temporaneo alla coscienza della realtà. Ho usato il termine – prevenire -, dicendo che quella nebbia, in alcuni casi, è benedetta, perchéci aiuta appunto a prevenire un dolore. La compagna del poeta (insegnante elementare) mi interrompe, correggendo quel verbo con il più esatto, secondo lei, – arginare. In quel momento ragiono con lei, confermando la sua intuizione, perché è sicuramente vero che l’oblio mi è necessario ad arginare un dolore, ma continuo a difendere anche la mia tesi, perché a volte sai esattamente ciò che sta per succedere, e che non è per nulla positivo, e l’attimo di oblio ti aiuta a prevenire, per un po’, quel dolore che sai benissimo arriverà.

Mi sono accostata con questo sentimento al video sul progetto di Pino Dal Gal. Ho temporeggiato fin che ho potuto, regalandomi un giorno di “nebbia”. Ho visto bianco anche durante i pochi secondi in cui il video stava per iniziare, quando il fondo nero con il pulsante play sta ancora davanti agli occhi fermi, in attesa. Poi, dal primo momento in cui la musica è iniziata, ho saputo che avrei pianto. Lacrime di rabbia, soprattutto, per l’assurda convinzione dell’Uomo di poter decidere delle vite degli esseri animali (e già qui sta il primo errore) con l’arroganza e, forse, la necessità di essere crudele. Senza una coscienza. E qui sta il secondo, tragico errore.

Le foto di Pino sono come le varie fasi di un dipinto, dove all’inizio c’è un solo colore (il bianco candido e puro del piumaggio) a costruire la scena che poi, poco alla volta, si arricchisce sempre più di sfumature rosate, fino a divenire la fiera del rosso, quel rosso che sa di sangue cavato con violenza. Immagino che, scattandole, si sia accostato a ciò che aveva davanti agli occhi con una dose di rispetto quasi sacro, quel rispetto che è la parte fondamentale della convivenza tra esseri della stessa specie e di specie diverse, e che è ciò che manca, orribilmente, a tanta umanità di oggi. Lo immagino perchè solo così si può rendere, come lui ha fatto, la dignità a quegli animali derubati. Sono loro i protagonisti, nelle foto, sono la parte buona della vita. Le loro piume divengono ai nostri occhi leggere e impalpabili, quasi trasparenti, quasi un miraggio per noi che le guardiamo, tantochè poco dopo, qualche fotogramma più tardi, non ci sono più, lasciando il posto a pelle e sangue. E allora chi guarda si domanda se non le ha solo immaginate per davvero, nella loro purezza che sta a metà tra l’infanzia e la beatitudine degli angeli che, per loro fortuna, possono vivere un po’ più in alto di noi, immersi nelle nuvole e nella nebbia che, a volte, può far loro chiudere gli occhi per un po’.

Testo di Ivano Mercanzin (2016)

Il colore rosso domina,
rosso è il colore della passione, del sacrificio, della sofferenza, dell’amore, del cuore, del sangue. Quel colore che quando è mescolato agli altri domina la scena, perfora lo sguardo, “buca”.
In questo lavoro di Pino Dal Gal , un progetto da lui realizzato ancora nel 1976 e ora riproposto a 40 anni di distanza, le chiavi di lettura sono a più livelli, reali e astratte, metafore del nostro vivere.
Emerge prepotente la violenza che viene perpetrata , necessaria alla sopravvivenza degli umani, ma sarebbe una lettura superficiale per nulla consona con il messaggio più profondo e universale dell’autore.
La contestualizzazione di questo progetto ai giorni nostri rende questo sofferto percorso di Pino Dal Gal ancora attualissimo, anzi direi contemporaneo come non mai. Per rendere fluido e più diretto l’autore ha deciso di procedere con questo montaggio e di musicarlo per rendere il tutto coinvolgente, abbracciando oltre al senso della vista quello dell’udito .
La miscela è esplosiva, impossibile rimanerne distaccati, senti a fior di pelle l’emozione che serpeggia e piano piano come spire soffocarti.
La scelta di Dal Gal,  da un punto di vista tecnico del “mosso” , l’ho trovata di grandissimo effetto, le persone appena abbozzate, indefinite, sembrano inconsistenti, privi di vita quasi dei robot preposti a questo rituale di morte.
Sparsi a terra frattaglie, piume, arti mozzati, residui di ciò che ora non è più.
A volte il quadro muta insieme con la musica e quasi come un balletto macabro ecco danzare corpi piumati , come in una nebbia, quasi un soffuso vapore giallognolo onirico nel suo movimento.
Poi la scena successiva, colli penzolanti, gocce di sangue dove si muovono solitari animali intrisi di rosso, un nuovo e drammatico piumaggio, quasi un annuncio di ciò che a breve accadrà.
In tutto questo come non pensare alle tragedie quotidiane, come non rivedere in questo racconto, l’evidente metafora delle violenze cui ogni giorno assistiamo?
Alla fine del video il buio , la musica si spegne e rimaniamo lì assorti, drammaticamente coinvolti con le immagini che si susseguono nella mostra mente e la disperazione commossa ci assale, come il senso di impotenza che sembra far parte ormai del nostro vivere quotidiano.

Testo critico di Piero Racanicchi (1976) 

Pino Dal Gal si afferma, come fotografo, nel clima di quella cultura d’immagine che negli anni ’60 porta avanti le istanze di un nuovo e profondo rinnovamento della fotografia italiana. La sua particolare sensibilità, lo porta presto a contatto con le tematiche del “neorealismo”, che ormai influenzano letteratura e cinema, da Vittorini a Pasolini, da Antonioni a Visconti.

In questo clima, in questo contesto, Pino Dal Gal trova subito una sua precisa linea operativa, lontana sia dagli schemi del giornalismo descrittivo di cronaca, sia dai parametri morfologici del post-pittorialismo. Per lui il reale, allontanato dalla tradizione della convenzione estetica, appare come una dimensione da reinterpretare: da porre all’interno di un progetto di scrittura che concepisca la fotografia come mezzo espressivo autarchico e non soltanto come icona descrittiva. Forte di questa convinzione Dal Gal ha sempre portato avanti con coerenza e costanza la sua personalissima ricerca. Da “Cimitero d’auto” del 1965, questo autore ha messo in campo, con una progressione esemplare sotto l’aspetto tematico e linguistico, un repertorio di materiali e di argomenti con i quali esplora i percorsi del suo cammino che diventa personalissimo e accattivante quando i segni del reale sconfinano nei territori del metafisico (Wally, 1971 – Miguel Berrocal, 1972 – Alberi, 1976).

Con attenzione e coerenza Dal Gal allontana la sua prosa dalle lusinghe letterarie del racconto. E quando punta il mirino della indagine sugli elementi della realtà esplorata, circoscrive gli oggetti e li scorpora dal contesto; ne rende improbabile l’ambito di appartenenza; separa le indagini del reale dal loro significato ambiguo, scende per linee essenziali e dirette all’interno di una storia, che diventa la “sua” storia; e dialoga con gli oggetti o i personaggi di questa storia, usando codici di scrittura che evidenziano sistemi e tracce di una realtà sicuramente reinterpretata, mai riprodotta.

Le opere di Dal Gal passano infatti vicino all’idea di foto-documento, ma subito la scartano, perché preferiscono scandagliare i confini che da sempre contrappongono il mestiere di scrivere agli schemi della rappresentazione. In questo senso, Chicken Story (1976) è opera emblematica ed esemplare. In queste immagini, anche i colori – bianchi, neri, rossi – diventano elementi di un balletto macabro e spietato in cui non vi è mai indugio moralistico, ma piuttosto l’impatto – violento – con i ritmi e la coreografia di un rituale pagano, imposto dalle convenzioni della società post-moderna.

Con Chicken Story, opera della maturità, Pino Dal Gal lancia una sfida all’idea di “story”, allontanando la sua prosa dalle lusinghe pedagogiche o letterarie del racconto. Senza vestire i panni dello obiettore di coscienza, l’autore volta infatti le spalle all’arte di convenienza, si allontana dal branco, e descrive a modo suo il rapporto d’amore che lo lega al mondo degli umani, mettendo in scena la liturgia di una società che annulla se stessa attraverso le azioni del vivere quotidiano. Nel solco profondo aperto da queste immagini, intessendo trame di quotidiano stupore e di angoscia, Pino Dal Gal afferma nuovamente la sua capacità di essere – come autore – padrone e artefice dell’evento rappresentato.

 

Note biografiche 

Pino Dal Gal, vive e lavora a Verona, dove nasce nel 1936.

Giovanissimo trova nella macchina fotografica il mezzo espressivo più congeniale ed i suoi studi si orientano ad apprendere e perfezionare le tecniche di ripresa e laboratorio presso l’istituto G.Galilei di Milano. Dopo aver completato la sua preparazione, rientra a Verona dove si dedica alla foto di costume e reportage, lavorando nel contempo per i servizi editoriali della A.Mondadori Editore. Inizia così quella ricerca d’ambiente, per la quale avrà importanti riconoscimenti nazionali fin dal ‘58.

Nel ‘70 apre a Verona una agenzia di pubblicità, nella quale è tuttora impegnato. La passione per la fotografia rimane nel suo DNA e si esprime nella ” narrazione”attraverso cui descrive e racconta alcuni aspetti della societa’ contemporanea e della condizione umana, dalle cruenti storie di denuncia degli anni ‘70 fino alla ricerca analitica di forme antropomorfe di rocce e nudi negli anni ‘80.

Nel 1995 viene scelto dallo storico Helmut Gernsheim per rappresentare l’Italia nella “Selezione Internazionale di Fotografia di Hildesheim (D)”, e successivamente quale unico fotografo italiano per l’inaugurazione del nuovo spazio espositivo Guggenheim a Venezia.

Seguono ancora mostre personali sia in Italia che all’estero oltre a importanti concorsi internazionali.

 

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