Posted by on 26 novembre 2016

 
 
 

di Marzia Casilli 

Leo ha portato una bottiglia di rosso scadente da supermercato, l’appoggia sul tavolo, si toglie il suo giubbotto di jeans due taglie più grandi con il pellicciotto dentro e lo lancia sul divano.

E’ già ubriaco, lo vedi dagli occhi, due braci verde mare agitato che ti fissano attraverso il muro di riccioli castani.

Ha la fronte sudata, le guance e il naso arrossate.

Si soffia il fiato di alcol nelle mani per riscaldarsi, balla sul posto, non va a tempo con Pezzi di Vetro di De Gregori che si espande nella stanza come un gas naturale.

Ti potresti innamorare di lui, forse sei già innamorata di lui, canta Leo, con la sua voce roca e piatta da bimbo grande, un po’ immusonito, i lineamenti dolci, inspessiti da una barba ribelle.

Tu, a piedi nudi, ti avvicini allo stereo, abbassi il volume, togli via il piatto sporco di sugo dalla tavola, prendi la bottiglia di vino, la apri con difficoltà e bevi, è aspro, cattivo, sembra aceto, nopn l’avrà pagato più di quattro euro. Ma hai bisogno di alcol, stringi gli occhi e mandi giù.

Leo sbuccia un mandarino, l’odore si diffonde nell’aria, si ficca in bocca una metà intera, poi l’altra subito dopo.

Mi fai una sigaretta? Gli chiedi mentre ti spogli della tua felpa, rimani in canottiera, lui ti guarda e sorride di lato.

Ne ho una pronta. Dice. Cerca per minuti interi nel suo zaino di tela, la trova. E’ storta, rovinata e umida, ma si accende lo stesso.

Hai cambiato tabacco? Chiedi.

Si.

Perché?

Questo è più buono.

No, non è vero fa cagare.

A me piace.

Perché ti piacciono le cagate, ecco perché.

Ti togli i jeans, la canottiera, e ora sei nuda davanti a lui, solo gli slip addosso, le gambe magre ancora leggermente abbronzate a novembre.

Vuoi litigare? Ti viene vicino, ti prende i polsi, te li stringe con dolcezza, ma tu vorresti forza, una cosa che a lui manca. La forza è da uomini. Lo guardi sfidandolo a farti del male. Gli vai incontro con la fronte, lo spingi indietro trasportando tutto il tuo inutile peso in avanti. Fammi male, pensi. Fammi male.

Lui non traduce questo desiderio e molla la presa. Ti infila la lingua in bocca, in modo docile e impaziente, sa di vodka e mandarino, è un buon sapore, gliela succhi perché ti piace quel sapore dolce e giovane,lui chiude gli occhi e tu continui a guardarlo mentre gli succhi la lingua lentamente, la sua lingua piena di nervi e di sangue come lui.

Incollati uno sull’altra, di torpore, di calore, di mancanze, ognuno ha le sue.

Saliva su saliva per compensare. Fondamenta di saliva per un amore sbilanciato. E’ tutto da una sola parte questo amore, dalla sua.

Poi ti gira,vuole scoparti sul tavolo, da dietro, tra briciole di pane e bucce di mandarino, sulla tovaglia con i girasoli che gli ha portato sua madre dal mercato sabato mattina.

E suo padre era rimasto in macchina. Con la radio accesa, la sigaretta. Non ci sale qui suo padre.

Lo allontani con un calcio leggero, come si allontana un cane senza fargli veramente male.

Devo uscire.

Ora?

Infili il tubino nero che avevi preparato sul divano. Te lo stiri addosso con le mani, infili anche i collant neri.

Si, ora.

Dove vai?

Devo lavorare.

A quest’ora?

Io non ho papà che mi passa i soldi, sai com’è e non faccio la ribelle per divertimento. Non ho un soldo, lo capisci questo? Vuoi che muoia di fame? E’ questo che vuoi?

No certo che no. Ma posso darti io una mano.

Non mi serve, faccio da me. Non voglio la mano di nessuno.

Ma dove stai andando?

Sei nel corridoio adesso, in bilico davanti alla porta, con il cappotto in mano, stai cercando di infilarti i tacchi senza cadere.

A lavorare, te l’ho detto.

E’ già mezzanotte, fa freddo così, ti buscherai qualcosa sul motorino.

Non vado col motorino, vengono a prendermi.

Chi? Chi viene a prenderti?

Apri la porta e gli dai le spalle.

Il mio lavoro, viene a prendermi.

Quando rientri a casa,sono passate le quattro, sei ubriaca fino agli occhi, cammini poggiandoti al muro del salotto, arrivi in cucina barcollando, non hai più il cappotto, dove cristo lo avrai lasciato.

Seduto al tavolo di cucina, Leo sta dormendo, la testa abbandonata di lato, i ricci a nascondergli la faccia, vedi la solo la bocca semi aperta.

Hai un conato di vomito, riesci a scappare in bagno, e ti liberi centrando in pieno la tazza.

Sudi freddo, tremi, cerchi di ricordarti se hai preso altro oltre l’alcool, ma non ricordi molto. Lo stomaco ti brucia, ti pieghi in due, vomiti di nuovo, sei senza forze, e ti stendi a terra, al buio sul pavimento freddo del bagno. Riesci a pensare, ma non riesci a muoverti. Senti il sangue bollente che ti scorre veloce nelle vene, e hai la percezione che gli occhi stanno perdendo mano mano la loro luce, sei scossa da violenti tremori e perdi contatto con la realtà, forse stai morendo. Allora spalanchi gli occhi e aspetti, la morte. Con impazienza. E con fiducia.

Poi la luce del neon ti colpisce all’improvviso agli occhi come un coltello.

Leo ti raccoglie dal pavimento, ti prende a schiaffi, chiede se lo senti, ti prende ancora a schiaffi, si siede alla tue spalle e ti tiene seduta poggiandoti sul suo petto magro, senti le sue costole sporgenti entrarti nella schiena. Vomiti di nuovo sul pavimento. Lui ti tiene la fronte.

Ti bacia i capelli.

Poi respira forte come te, come dopo una lunghissima corsa.

Cosa hai preso? Chiede dopo un po’ steso sul pavimento accanto a te.

Non lo so.

Si alza, riempie la vasca fino all’orlo, ti sfila il tubino, le calze, gli slip, vede del sangue.

Ti guarda, tu guardi a terra. Tremi ancora. Sembri un cane bagnato trovato in autostrada traumatizzato dalle luci veloci delle macchine.

Ti raccoglie dal pavimento, ti adagia nell’acqua calda, prima solo le gambe, Troppo calda? Chiede,scuoti la testa, poi tutta quanta fino al mento.

Spreme nell’acqua il bagnoschiuma all’olio di Argan, fa la schiuma bianca che ti piace tanto. Si alza le maniche della felpa fino ai gomiti e prende a insaponarti, partendo dai capelli.

E ti viene in mente tuo padre, quando da bambina la domenica, ti faceva il bagno. E tu ridevi tanto mentre lo spruzzavi col soffione allagando il pavimento.

Ti senti gli occhi strani, come se non ci fossero. Pensi all’uomo di qualche ora fa, al suo odioso odore di colonia dozzinale, alla forza che ti aveva usato contro, non era quella che cercavi. Pensi a come eri stata abile a schivare i suoi baci, e le sue domande impaurite.

La cravatta che si era tolto con un gesto misurato mentre ti guardava con uno sguardo feroce e freddo.

Leo ti spazzola i capelli, solo il rumore dell’acqua in mezzo a voi, cerca di ammorbidire i nodi sui tuoi ricci e dentro di te.

Ti porta fuori dalla vasca, ti avvolge nell’asciugamano, ti tiene stretta mezz’ora.

Come stai? Ti chiede.

La mia è una vita che non si può vivere. Dici.

Ora pensiamo a dormire, che siamo esausti.

Sì, sono proprio esausta, hai ragione.

Appunto, andiamo. Ce la fai a camminare?

Si.

Vi stringete sotto al piumone, la luce giallognola dei lampioni illumina malamente la stanza.

Mi sento la siccità, dici sottovoce.

Siccità?

Si.

Dove?

Siccità negli occhi.

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FOTO DI PAOLA MISCHIATTI

 

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FOTO DI PAOLA MISCHIATTI

 

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