Posted by on 20 settembre 2020

 
 
 

Il titolo della canzone è “Following a bird”, l’autore Ezio Bosso. Fai così, mi ha detto assegnandomi il compito, ascoltala e cammina.

All’inizio del mio percorso di terapia, ero molto scettico ad accettare quello che mi diceva. Non capivo il nesso tra il fine – il suo – e ciò che mi consigliava di fare. Oggi, dopo anni, credo di non comprenderlo ancora del tutto, però mi ci sono abituato. E così ieri, quando il dottore mi ha inviato il link con il brano da ascoltare, dentro di me ho fatto spallucce, ma ho eseguito.

Sono uscito all’alba, stamattina, armato di auricolari e buona volontà. Il sole inizia a entrare nel cielo della notte e ho l’impressione, come sempre, che sia un gentiluomo e che lo faccia chiedendo permesso, senza la spavalderia che molti gli attribuiscono. Mi conforta pensarlo come un signore aggraziato e un po’ anziano che, giorno dopo giorno, si affaccia ancora in punta di piedi a un mondo che in qualche modo gli appartiene. Ed è proprio questa contrapposizione a renderlo così speciale, ai miei occhi. Un po’ come me, grande fuori e gracile dentro. Cammino sulle rive del lago ascoltando la musica del dottore. Fingi che l’uccello del titolo sia la felicità, mi ha chiesto. Sinceramente, devo impegnarmi per sentire quello che lui sente, in questa canzone; non è cosa semplice trasformarsi in qualcuno che non sei. A me, questa miriade di note acute fa venire in mente solo un insieme infinito di vetri, o di specchi, e la loro estrema fragilità. La paura di romperli. Il rumore che farebbero. L’assordante frastuono, al quale non c’è rimedio. Il vuoto, dentro.

Ma io, mica l’inseguo, la felicità. E’ questo che nessuno, ancora, ha capito.

Prova a essere leggero come quelle dita sulla tastiera. Mi sono sempre sentito d’ingombro e forse pagherei per provare quella sensazione di cui lui parla. Invece pago lui, da anni. Ma poi penso che la leggerezza mi snaturerebbe. Non voglio staccarmi dalla mia natura. Non mi sentirei a mio agio a dover rinascere di nuovo, a cinquant’anni. Il pianista forse ha l’anima più leggera della mia: la canzone lo porta a volare sulle cose, io sulle cose m’imbatto ogni giorno. Così come sulla gente. Conservo la granitica convinzione che la maggioranza delle persone mi veda come un ostacolo. Ai loro percorsi, alle loro aspettative, alle loro idee. Non so da dove nasca tutto ciò, e perché me lo porti dentro da sempre. Molto probabilmente la maggioranza delle persone che incontro nemmeno si accorge di me, ma non riesco a mettermelo in testa. Mia madre da piccolo mi chiamava il bambino triste; da quella tristezza io non ho mai voluto separarmi. Mi veste da anni alla perfezione, come un abito caldo d’inverno. Il suo colore è il blu. E’ una parte di lei che mi ha donato, e io non la voglio perdere, perché mi serve per tenere a bada il mondo.

Non ci sono nuvole in cielo in questo momento, e si vedono le montagne in lontananza, nitide. Ai miei occhi sembrano i tanti progetti, vicini ma lontani, che mi si pongono quotidianamente davanti. Alcuni giorni, come oggi, li ho ben chiari nella mia mente, e lotto con forza per raggiungerli. Altri, quando c’è la nebbia oppure le nuvole li coprono completamente alla mia vista, non li ritrovo più, e mi smarrisco. Anche il pianista alterna dei momenti in cui suona più veloce ad altri che va rallentando, fin quasi a fermarsi. Credo che la vita di ognuno sia un po’ così, e davvero non vorrei correre tutti i giorni allo stesso modo. In quelli in cui sono più calmo, accumulo dentro, in un luogo sicuro, l’energia che le cose negative mi rimandano indietro. I miei scudi ce li ho, li ho rafforzati nel corso del tempo, ma sono sempre e comunque vittima di un’altalena. Ecco, ora la musica cresce e monta dentro di me la solita rabbia che ho nei confronti del mondo. Non è stato facile, negli anni, non soccombervi, capire che dovevo trovare delle vie per farla uscire, individuare quali fossero e poi trovarle. Non è stato facile incanalare la mia essenza dentro a qualcosa che andasse bene al mondo.

Sono miope, pressoché dalla nascita. Sono giunto alla conclusione che non vedere bene sia un bene. Certo, porto gli occhiali, ma non appena sono infastidito da qualcosa, me li tolgo. Sto anche mezz’ora, a volte, prima di rimetterli. Perdo intenzionalmente i contorni di ciò che ho davanti, e il più delle volte questo è un bene, è proprio ciò che voglio. Ascoltando la canzone per l’ennesima volta, provo quell’istinto di toglierli; non c’è un pensiero preciso alla base di questo gesto, solo la volontà di unire ciò che sto ascoltando a una sensazione fisica. Li ripongo allora nel mio marsupio e continuo a camminare. Di solito non lo faccio mai se sono in movimento, è pericoloso. Ma oggi c’è qualcosa di diverso; sono tutto solo, in una stradina di sassi in riva al lago, all’alba. Non c’è un’anima viva. Che male posso farmi? Subito, il momento di smarrimento iniziale, quello in cui devi ritarare i sensi per ritornare ben saldo con i piedi per terra. Poi, dopo una decina di passi tremolanti e incerti, acquisisco una consapevolezza sempre maggiore e comincio a velocizzare i miei passi. Le note della canzone ritmano il battito del cuore e inizio a correre una corsa appena accennata, timorosa ma, in qualche modo, fiduciosa. Inseguo davvero un uccello per pochi secondi, e non so se il suo nome sia felicità. Mi sento meno pesante, non leggero ma qualcosa che gli va vicino, credo. Mi sembra di potermene fregare di chiunque incontri lungo il percorso, la forte miopia mi sta salvando dalle brutture di un mondo che mi rifiuto di guardare diritto negli occhi. Spavaldo, come il sole non è, dentro e fuori, per una volta. La canzone continua ad andare in ripetizione, dall’inizio della mia camminata; non so quante volte l’ho ascoltata, non so quanto i miei pensieri abbiano seguito la struttura della sua composizione, in calando e in crescendo.

L’ho trovata, penso a un certo punto: ho trovato la mia felicità. Forse per l’aria fresca di questo mattino d’inizio autunno, forse per la mancanza di lenti di protezione davanti, i miei occhi lasciano a poco a poco spazio al pianto. Merito anche della musica stessa, credo, che a tratti è felice e spensierata e a tratti è greve e cupa. Forse il dottore ha davvero alla fine scovato l’esercizio giusto per me. Continuo a correre e respiro rumorosamente, quasi per sentirmi ed imprimermi bene nella testa la mia voce in questo momento, sempre vedendo poco e in maniera sfuocata, in una riscoperta del mondo che mi sta attorno. Non è poi così male e, per un attimo mi pare di potercela fare. Poi, improvviso e ovviamente inaspettato, un forte dolore alla caviglia. Mi blocco all’istante, cercando di ignorare le sadiche fitte che arrivano al cervello: ho calpestato una buca, perché non l’ho vista. Stavo correndo senza occhiali, stavo vivendo senza rete di salvataggio.

Ecco il rischio a cui si va incontro; ecco il dolore, ecco la vulnerabilità. A tutto questo preferisco mille volte la mia tristezza perenne, la mia aura di incompreso, il mio guardare le cose a distanza. Inforco con rabbia gli occhiali e con la stessa rabbia maledico il dottore e il suo dannato esercizio. Il pianista, intanto, continua imperterrito a suonare nelle mie orecchie; strappo gli auricolari, gettandoli a terra. Mi siedo, abbattuto e sconfitto, assaporando le nuove lacrime di dolore che si fondono a quelle di libertà, assaggiate poco prima. Non hanno un gusto molto diverso, sembrano figlie della stessa identica madre… e forse è così.

Alzando lo sguardo, nella luce crescente del giorno, una scena da film mi si para davanti. Due lontane figure – un uomo e una donna – una di fronte all’altra, in piedi sui lastroni di sasso piatti che emergono dalle acque del lago. Come su due differenti piattaforme, come su due differenti pianeti; si parlano, credo, perché non riesco a sentirli da qui; ma sono sicuro che non si capiscano. La distanza è una dimensione strana; senza essere proporzionale alla sua reale misura, è un’arte da imparare a sopportare, per sopravvivere.

E’ una difesa, l’unica. E’ l’unico modo per vivere al sicuro.

Stare lontani.

A volte, pezzi di anima di un’altra persona riescono lo stesso a raggiungermi, nonostante le mie precauzioni. Cerco di respingerli, ma non sempre ce la faccio. A tratti, brevi tratti, mi capita di compiacermi della sensazione che provo in quei momenti. Poi però, torna la paura. E mi richiudo nella mia tristezza colorata di blu.

(www.taniapiazza.com)

(ph. Ivano Mercanzin – www.ivanomercanzin.it)