Posted by on 11 giugno 2017

 
 
 

di Marzia Casilli 

Hai avuto freddo stanotte? Le ho detto versandole del latte nel bicchiere di plastica.

Perché mi hai lasciato dormire? Ha detto e si è presa del gin a parte in una tazzina. Si è seduta sul davanzale interno della finestra, sulle mani, con la tazzina e il bicchiere accanto.  La schiena appoggiata al vetro, le spalle curve, i piedi nudi a penzolare a un metro dal parquet.

Perché piove. Ho detto io.

Aveva l’aria stanca. Gli occhi gonfi e cerchiati. Scompariva sotto la sua camicia da notte e una falena le volava  vicino sbattendo sui vetri.

E le bambine? Si è guardata intorno tra  le tazze, i cereali, le briciole, la padella con il pollo unto, gocce incrostate di vino nei bicchieri.

Sono da mia madre.

Si è messa a sorseggiare il suo gin, guardando verso il pianoforte impolverato al centro del salotto.

Era domenica mattina. Quasi mezzogiorno. La casa era buia.

Pioveva dalle sei e c’era ancora una certa nebbia oltre il nostro giardino, oltre la strada e il passaggio a livello.

Ho preso anch’io del latte e del gin a parte in una tazzina.

Eva ha appoggiato la testa contro il vetro e i capelli le si sono alzati attorno alla testa, sembrava far parte del paesaggio fuori. Sembrava venire giù con la pioggia.

Quando l’ho conosciuta i capelli le arrivavano a metà della schiena. Erano biondi, di un biondo sano e miracoloso. Adesso, non avrei saputo definirne il colore. Forse avrei detto pallidi.

Me ne torno a letto. Ha detto saltando giù dal davanzale.

Pensavo che potremmo andare a pranzo da Carlo e la sua ragazza.  Ho detto. Mi hanno chiamato stamattina.

Ha staccato un pezzetto di pollo con le mani e se l’è ficcato in bocca.

Non ho molta voglia di uscire con questo tempo. Si è succhiata le dita per poi strofinarsele sulla camicia da notte. Ma se tu vuoi, vai pure.

Si tratta solo di attraversare la strada, andiamo, ci farà bene uscire.

Si è guardata i piedi, le unghie troppo lunghe che spuntavano aguzze.

Un aperitivo. Ha detto.

D’accordo.

Portiamo del bianco però, quei poveracci ci rifilano sempre vino da discount. Ha detto.

La casa di Carlo e la sua ragazza si trovava dall’altra parte della strada, in fondo al vialetto, quando iniziavano a scomparire le villette col giardino sul retro e facevano la loro comparsa i condomini a 6 piani senza balconi.

Stavo per suonare il campanello della loro stanza in affitto, quando Eva mi ha  preso il polso.

No, ha detto, non mi va.

Ma ci aspettano.

Credo che sapranno bere anche senza di noi. Ha detto. Anzi sai che ti dico? Avranno già iniziato.

Mi teneva ancora la mano stretta sul polso.

Ci facciamo un paio di drink e ce ne andiamo. Ho detto io. Su.

Va pure. Ha detto lasciando la presa. So che stai morendo dalla voglia di discutere di Nich con la ragazza di Carlo.

Nice si dice Nice. Te l’ho detto mille volte.

Sai il cazzo che me ne frega.

Entriamo e basta.

Non mi va di starla a sentire la signorina nonhonemmenotrentanniegiàlavoroinuniversità. Ha detto dandomi le spalle, camminando verso casa.

Forse è perché ti rode. Ho detto.

Lei si è fermata senza voltarsi con le braccia a mezz’aria come a dire: sentiamo.

Hai quasi quarant’anni e non hai mai lavorato un cazzo di giorno in vita tua.

Si è piegata, ha lasciato la bottiglia sul marciapiede.

È questo che pensi? Ha detto senza voltarsi.

Perché? Non è così? Ho detto io. Quanto è durata l’associazione culturale per gli orti che avevi aperto, quanto? E le lezioni di piano che stavi prendendo? E il corso di sommelier? Ti sta sul cazzo, perché lei sa cosa vuole e tu invece non vuoi un cazzo di niente. Sei un maledetto guscio vuoto. Una parassita di merda.

Ha ricominciato a camminare. Ho raccolto la bottiglia e l’ho guardata attraversare la strada.

Sulle scapole, il laccio incrociato del costume, le sue vertebre sembravano una lunga scala di nocche.

Le sono andato dietro a passo accelerato, l’ho presa per le braccia.

Non mi toccare.

Ha aperto il frigo, si è versata del latte in un bicchiere di plastica e del gin a parte in una tazzina. Ha bevuto d’un fiato e poi ha scaraventato la tazzina sul pavimento.

Io. Ha detto. Io sto tirando su le bambine.

Lo so. Ho detto. E mi disp…

Mentre tu. Tu. Ti scopi quella il venerdì sera, dopo l’ultima lezione.

Sono rimasto zitto appiccicato al muro.

Dove te la fai? In aula? In sala professori? In bagno?

Eva.

Che fa? Ti parla di Nich mentre te lo succhia?

Smettila.

Non mi toccare. Ha cominciato a piangere indietreggiando e ha sbattuto forte la testa contro lo spigolo dello scolapiatti.

Ho aperto il freezer. Dove cazzo era  il ghiaccio? Le bambine lo mangiavano d’estate.

Ho preso un filetto di branzino surgelato.

No ha detto. Poi mi puzzano i capelli.

Ma ti verrà un bernoccolo.

Le ho stretto le dita. Erano fredde. Del muco giallognolo  le colava sulle labbra. Si è pulita con il dorso della mano.

Una volta. Ha detto. Ti piaceva correggermi quando sbagliavo i nomi delle cose.

Ho avuto una gran voglia di abbracciarla da dietro davanti alla finestra. L’ho fatto.

Le ho premuto il branzino sulla testa.

Sto pensando di aprire una libreria per bambini. Ha detto.

È una buona  idea.

Ho guardato fuori, dall’altra parte della strada, poi sul davanzale, la carcassa di una falena.