Posted by on 31 dicembre 2016

 
 
 

di Tania Piazza 

Io non ci credo che l’anima vola in cielo. Secondo me, rimane spiaccicata a terra. Almeno all’inizio.

Ho il cuore che fa il matto. I medici stanno provando da anni, in vari modi, a darmi una risposta, arrabbiandosi tra di loro perchè, dopo infiniti consulti e innumerevoli esami, nessuno riesce a capirne qualcosa. Sembra essere una questione di incredibile importanza, per loro e per i miei figli; temo di essere l’unico, qui, a non volere davvero una risposta. Non ne ho bisogno, grazie. Sento il mio cuoricino che svolazza, a tratti velocemente, a tratti quasi immobile. Mi ci sono affezionato, a questa sensazione di variabilità. E’ come se avessi un motore, al mio interno, che a momenti risponde in maniera rapida e in altri si prende i suoi tempi. Io non credo che funzioni male, solo perchè è diverso da tutti gli altri motori. Credo piuttosto che sia unico, e questo mi rende in qualche modo felice. E orgoglioso di lui. Alla mia età, dicono, è normale che lui se ne vada in giro pianino. Fin qui, niente di straordinario per tutta la manica di dottori che si sta impegnando per guarirmi. Io, a questo ritmo lento sono abituato da tempo, ormai. I battiti seguono l’avanzare dei giorni: se uno ha meno tempo da vivere, è giusto che corra meno, che si assapori tutti i singoli istanti che ancora gli rimangono. Il cuore è un organo intelligente. Non spreca, lui. Ma le emozioni consumano energia e c’è chi sceglie di non emozionarsi più, invecchiando. Ne conosco, io, di gente così. Al bar, sembrano tutti già morti. Passano le mattine a sfogliare il giornale e a fare qualche chiacchiera superficiale, con una parvenza di interesse che a me non frega più. In realtà, non gliene importa niente a nessuno se tu ieri sera hai digerito bene oppure se hai faticato a dormire; se i tuoi nipotini non verranno a trovarti questo fine settimana e quindi te ne starai tristemente a sperare che il prossimo sabato arrivi di corsa. Se in farmacia non c’era tempo per farti misurare la pressione, e tu sei preoccupato. A nessuno interessa di tutto questo. Se ne stanno lì ad ascoltarti con una faccia impassibile, sempre la stessa. Mai un cambio di espressione. Mai un bagliore negli occhi. Tutti vogliono preservarsi dalle emozioni. Perchè consumano, fanno battere il cuore più velocemente e mangiano le ultime risorse che ci rimangono prima di andarcene da questo mondo. Tutti a fare le formiche, a risparmiare battiti e metterli da parte. Chissà per cosa.

Io mi sono stancato. Avevo iniziato anch’io, inconsapevolmente. Senza accorgermene, facevo ogni giorno tutto quello che si può fare per mantenere il cuore calmo e tranquillo e farlo avanzare con lentezza. L’ho sentito battere sempre meno, e mi sono adeguato alla sua nuova musica, non capendo che invece era lui ad adattarsi a me. I dottori, a quel tempo, mi hanno rassicurato, dicendomi che era tutto nel normale corso della natura: le cose vecchie a poco a poco perdono il loro splendore, appannandosi, e funzionano più a rilento. Niente di preoccupante insomma. E io non ho fatto nulla. Mi sono adeguato, camminando meno, sorridendo meno, partecipando meno alla vita. Ho ascoltato anch’io i miei amici al bar, quando mi raccontavano che la partita del giorno prima non era stata poi così bella e che i commentatori alla tivù erano di parte. Come l’arbitro. E li ho ascoltati anche quando mi hanno raccontato che la caldaia non funzionava bene e l’idraulico non veniva mai ad aggiustarla. Li guardavo e facevo di si con la testa. Il mio cuore, dentro di me, sembrava addormentato, assopito non dalle parole – come pensavo io – ma dalle mie reazioni. Come un’anestesia prolungata. Ai successivi controlli, anno dopo anno, “tutto bene”, continuavano a dirmi. “Non faccia sforzi, non faccia cose diverse dalla routine”, così camperò cent’anni, aggiungevo io.

E’ capitato una mattina, stavo andando al solito bar. In un angolo della strada, nella zona tra il parco e la via che porta al panificio, l’ho visto a terra. Non è stato il colore del suo pelo ad attirare la mia attenzione, anche se, osservandolo dopo, mentre lo carezzavo, era di uno spettacolare color albicocca. E’ stata piuttosto la posizione in cui era messo, steso a terra, a metà tra l’asfalto e l’erba. Posava il capo sul verde, come se fosse un cuscino. Le zampette erano allungate, sia quelle davanti che quelle dietro. Come quando ci si stira alla mattina, appena usciti dal letto, pensando alla nuova giornata che avanza. Ho capito subito che il suo nuovo non sarebbe più avanzato. Che il suo sonno era eterno. Di gatti morti stecchiti a terra ne ho visti molti, in tutti i miei anni. Ma chissà cosa c’era di diverso in quello. Forse,l’espressione del suo musetto. Dolce ma allo stesso tempo lontana, come se quel gattino fosse in possesso di una grande segreto che non avrebbe svelato a nessuno. Mi sono avvicinato piano, camminando come al solito, ma ho sentito che qualcosa dentro di me non era più in linea: per una volta, il mio passo sembrava più lento del battito del mio cuore. Il motore dentro di me aveva preso un’altra andatura, tutta sua, stavolta. Bum bum bum. Un passo. Bum bum bum, un altro. Mi sono fermato, sempre tenendo lo sguardo fisso su quel magnifico animaletto che, da terra, stava compiendo un miracolo. Il cuore non accennava a rallentare, quindi ho ripreso il mio passo e sono giunto a lui.

Ammetto di non essermi seduto subito, ho voluto stare a guardarlo dall’alto ancora un po’, giusto per studiare un po’ meglio la situazione. Quando l’ho fatto, infine, l’impulso a toccarlo è stato irrefrenabile. Il pelo era soffice e freddo, le zampette molli, come quando tieni tra le mani un orsetto di peluche. Senza vita. Ho cercato il muso, mi ci sono avvicinato, l’ho annusato chiudendo gli occhi, l’ho accarezzato pregando che lui riaprisse i suoi. Tutto questo con il sottofondo del mio bum bum bum. Il gatto era morto, non c’erano dubbi. Ma qualcosa mi ha trattenuto lì, al suo fianco. E mi ha spinto a fare di più: mi sono steso di fronte a lui, nella sua stessa speculare posizione. Il mio naso contro il suo, le mie braccia e le mie gambe allungate a sfiorare le sue zampe. C’era una specie di alone attorno alla sua sagoma, come un liquido impregnatosi al suolo. Un colore impercettibilmente diverso. Sono stato non so quanto steso lì, in silenzio, senza guardare. Ha fatto tutto il mio cuore. I suoi battiti si son levati in una corsa, e le mie orecchie erano piene. Ogni tanto riaprivo gli occhi e mi ritrovavo il muso dell’animale sempre più vicino, poi li richiudevo e mi godevo quel momento di vita. Non so davvero dire quanto tempo sia passato, prima che una passante mi scuotesse, chiedendomi se andasse tutto bene. Ho cercato di rassicurarla e di mandarla via, ma non c’è stato verso, ho dovuto alzarmi e farle vedere che non mi era successo nulla, che l’unico davvero sfortunato era il povero gatto rimasto a terra, e finchè non mi sono incamminato con lei fino al bar, non mi ha lasciato solo. Ricordo di aver provato a raccontare a qualcuno quello che mi era appena successo. Ma non sapevo ancora dare un nome a tutto ciò. E anche se lo avessi fatto, probabilmente mi avrebbero guardato col solito sguardo assente, da battito lento.

Il mio cuore, invece, batteva ancora veloce, ed è rimasto così sveglio per qualche giorno. Tanto che i miei figli, preoccupati, hanno voluto anticipare la visita dal medico, per il solito controllo annuale. E da lì è iniziata la trafila, che ormai dura da anni. Nessuno, a oggi, sa ancora spiegarsi perchè il mio cuore fa il matto. Non ci sono malformazioni, dicono, nè sofferenze particolari, a parte il naturale logorio delle cose vecchie. Nessuno si spiega quindi perchè, a volte, senza nessun apparente motivo, si metta a battere più veloce, come se avesse quindici anni, han detto. Come se si dimenticasse che di anni ne ha quasi ottanta, invece. Poi, dopo qualche giorno passato a danzare, torna a camminare lento, come dovrebbe. Eccolo, il mio problema. Secondo loro.

Io, invece, lo so bene che il mio cuore non è malato. E’ diverso, e questo lo rende unico. Me lo tengo stretto e cerco di coccolarmelo, dandogli le cose di cui ha bisogno. Da allora, cammino per la città ogni giorno, andando per le strade tutto il tempo che prima me ne stavo al bar. Lui se ne sta tranquillo dentro al mio petto, e cammina piano, assieme a me. Ogni tanto, ci capita di vedere un gattino a terra. Ci avviciniamo senza la tristezza che provavo una volta. Sappiamo che abbiamo un compito. Ci stendiamo a terra, vicino all’alone. E stiamo lì, finchè l’anima del micino non passa. Lui inizia a battere forte perchè è felice, tutta quella nuova vita che entra dentro di noi, e che non va sprecata. Poi, ci basta per giorni e giorni, nei quali camminiamo tranquilli e felici. I dottori continuano a non capire, ma io sto meglio ora, rispetto a una volta. Raccogliere le anime è un lavoro per pochi, non ho ancora incontrato nessun altro che lo fa. Ma io lo so per certo che ci sono altre persone come me. Ogni tanto, vagando per la città, incrocio uno sguardo sereno. Capisco al volo che dentro a quel petto c’è un cuore felice, come il mio. Che invece di svuotarsi giorno dopo giorno, si riempie di vita, salva le anime dei gattini volati in cielo e cammina sereno, danzando, a tratti, in questi giorni mai uguali.