Posted by on 3 dicembre 2016

 
 
 
  di Paola Palmaroli
Comunicare, in uno spazio di libertà, non scenografie mentali ma il proprio “non luogo” dove sfogare l’autoanalisi che nasce dal continuo immergersi in se stessi, potrebbe essere una definizione perfetta per circoscrivere l’atto fotografico. Atto immerso nei luoghi dove corpo e mente viaggiano fisicamente e concettualmente, astraendosi o inserendosi nella materia di cui sono fatti i passi, i bisogni, gli incontri, ovvero il cuore, il cervello, la carne, i muscoli, il sangue che scorre nella vita quotidiana e da ordinari diventano straordinari in un apparentemente semplice scatto fotografico.
Quante volte ho incontrato fotografi che usano le definizioni di Mario Giacomelli per farsi forza del proprio intimo atto del fotografare, quasi una lezione imparata a memoria ripetuta fino ad esaurirne la profonda connessione con il proprio gesto, intendimento, fine, obiettivo, perchè no, anche lontano dal proprio personale bisogno di fotografare!
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Citiamolo allora e proviamo a capire sia l’uomo che il fotografo, due facce della stessa medaglia, tracce lasciate sia dal primo che dal secondo:
“L’immagine è spirito, materia, tempo, spazio, occasione per lo sguardo. Tracce che sono prove di noi stessi e il segno di una cultura che vive incessantemente i ritmi che reggono la memoria, la storia, le norme del sapere. – Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi. A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose, per altri invece rimane una macchia. – Io non credo che la morte chiuda certe storie, perché, se c’è tanto di strano in questi occhi che vedono, e in queste orecchie che sentono, vi è posto per altre cose strane che non capisco”.
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 Prendete una foto di Mario Giacomelli, va bene anche una fotocopia, o una in un catalogo, tenendola in mano camminate lentamente da una stanza molto buia ad una illuminata; mentre camminate, lentamente, non distogliete lo sguardo dall’immagine e non preoccupatevi se si sfoca, se i contorni si schiudono, osservate soltanto cosa accade sul foglio che piano si arricchisce di informazioni: i primi segni, le stesure di “colore” nero e bianco, la quantità di materia aumenta, l’informe assume una ricordanza, un contorno che conquista l’occhio, diventa forma, quindi disposizione e infine, in piena luce, ecco la foto che conosciamo. Questa è una delle cose che Giacomelli consigliava di fare con la maggior parte delle sue foto-grafie. Non esiste un ordine, una gerarchia, tra i vari strati comunicativi, se non nell’occhio di chi guarda. Possiamo anche provare a fare il percorso inverso a quello sopra descritto. Sempre citando Giacomelli:
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 “Forse io sono così: non voglio farmi capire per esser meglio capito. Le cose vanno assorbite tra chi le dice e chi le ascolta, perché sono come viaggi all’interno di situazioni sconosciute, vissute prima di allora nell’ombra, per comunicare in un abitato diverso, per una possibilità di gioia sconosciuta”.
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La fotografia di Giacomelli richiede una integrazione diversa da quella che domandano le altre foto. Non è la prima cosa che viene in mente il sovrapporsi di linguaggi, di piani di lettura, la loro combinazione ma bisogna trascinare l’immagine verso di sè, sia esternamente che internamente, magari con la scusa di osservare la carta annusarla. L’opera di questo fotografo straordinario si adatta continuamente al presente. Egli è entrato a far parte della storia dell’arte italiana, se non lo si trova nei manuali scolastici è un limite diffuso in Italia che porta a considerare la macchina fotografica diversa dai sassi colorati, legni bruciati, pennelli e colori o bulino, o qualsiasi altro mezzo espressivo.
Giacomelli è uno dei più grandi artisti italiani nel mondo e chiamarlo fotografo senza che tutta la storia dell’arte ne sia consapevole è come chiamare Picasso “spennelatore”.Diceva Giacomelli “Non so se si capisce. Ma intorno alle forme ci sono altre forme. A volte le persone sono vuoti neri e sta intorno ad essi la densità del reale, altre volte sono materia luminosa e attorno a loro scorre la dura e ruvida realtà, il traumatico fluire del tempo. Nessuna immagine può essere “la realtà”, perché la realtà ti capita una volta sola davanti agli occhi.”
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Cos’era per lui il soggetto? Le forme del rappresentato servono prima di tutto alla “contemplazione” come osservazione intensa, assorbimento. Occorre nascondere nell’evidenza la verità , non deve essere sfacciata, né auto-proclamante. Così come diventa intimo il rapporto tra i vari piani interni all’immagine, diventa anche il dialogo tra la foto-grafia e l’osservatore.Con le foto di Giacomelli esiste la possibilità del corteggiamento, si rischia di innamorarsi ed eroticamente scoprire una realtà pura. Perché celare e non svelare? Conan Doyle suggeriva di nascondere le cose in posti dove potevano essere più in mostra, così fa Giacomelli: il messaggio (che si crea in ogni espressione) è li davanti ai nostri occhi e può essere letto in più modi; ricordiamoci che la fotografia è, del fotografo, parola rivelata, per povera o ricca che sia.
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La fotografia per Giacomelli aiuta a scoprire le cose a, interpretarle e rivelarle.Racconta la conoscenza del mondo, in un’ architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sente tutta la completezza della sua esistenza. Bisogna diffidare del fatto che tutto si consumi nella prima impressione, ma può essere giusto partire da essa, perlustrare tutto attorno a dove si posa lo sguardo e sicuramente scoprirete il codice. Perché è necessario un codice? Perché già da molto prima dell’ufficiale “società dell’immagine” la comunicazione è stata imbrigliata fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui le verità vengono costruite in modo da non poter essere smontate e riconosciute come forzature

Com’è occidentale la perdita, come occidentale è la mancanza dei sostantivi stupore, rivelazione, esperienza, interiorità. Gusci, bozzoli, contenitori del vuoto nell’epoca in cui la verità si consuma attraverso la sintassi della riproducibilità omologata, nell’omogeneità delle sequenze del visibile, di ciò che ci raggiunge mediante lo sguardo, o il tramite degli occhi indipendentemente dalla nostra capacità o possibilità di esperire, di vivere. Senza stupore, senza rivelazione, senza esperienza, senza interiorità non vi è nulla di visibile e di traducibile. Ecco perché la necessità di qualcosa di più di una bella foto, il bisogno di raccontare che ha l’immagine e l’urgenza che ha il fotografo di trovare interpreti della sua vita e della vita del mondo, un mondo di segni che l’uomo ruba e lascia come storie.

Traccia, orma, documento, testimonianza, prova, sono sinonimi del termine “segno”. È normale che i segni che produciamo, oltre ai segni che riusciamo ad individuare ci mettano in comunicazione con le altre persone, ma anche con il resto del mondo sensibile, nonché impercettibile e immateriale.Le immagini prendono le loro forme dalla vita e come la vita hanno i segni lasciati da una realtà a un’altra, la sperimentazione del mondo.

Il segno non soffre di quel “flusso traumatico del tempo” che Mario Giacomelli ha sempre inseguito e al contempo fuggito (nella prima fotografia cercò di fermare il movimento delle onde marine) sino all’inevitabile. Il flusso traumatico del tempo e l’esistenza appiattita del quotidiano portano a fotografare e a sognare di poter uscire da ciò che è già stabilito e volare nel territorio luminoso dell’immaginario. Lo scavalcamento della realtà fa sentire al fotografo il pulsare di una diversa vitalità e lo aiuta ad aggiungere realtà a realtà, cambiata nel segno e nella forma per produrre nuove domande, in libertà creativa che è un linguaggio e la rappresentazione dell’anima, l’intrigo con le cose grandi della vita, perché esse si donino con un nuovo significato.

Non si fotografa ciò che vede l’ occhio, ma l’ anima, le foto chiedono non tanto di essere capite, ma interpretate, sono documenti del pensiero, sono percezioni e sensazioni. Il segno porta con se tutto il suo tempo contemporaneamente, dall’origine ai futuri mutamenti e, lo si sente nelle parole e nella musica, ma anche nei sapori e più evidente nell’arte visiva, ma in tutto questo la “traccia” ci mette in comunicazione con il passato, non ci permette di indugiare nel presente, ci proietta nel futuro e verso ciò che è assente. Ecco perché Giacomelli poteva andare a fotografare con i suoi amici vedendo quello che nessun altro riusciva a vedere, riusciva a “far saltare i limiti della situazione”, non si abbandonava alla profusione di stimoli che incidono sui nostri sensi, raggiungendo le forme più evolute del linguaggio. Sotto ad ogni cosa riposa una poesia sopita e vivente, che respira sollevando a tratti le cose e le persone dall’appiattimento del mondo; in quel momento qualcuno guarda, ma in pochi vedono.

Giacomelli è stato uno di questi ultimi, un testimone dell’invisibile che sta sotto ai nostri occhi.Egli non ha congelato istantanee, non ha catturato attimi fuggenti, ma ha creato spazi per loro, che ancora ci vengono incontro sperando in noi, nella nostra capacità d’interpretare i segni, quindi il mondo; hanno fiducia nella nostra visione, e intanto ospitano il fotografo, c’è il suo corpo, matrice di quegli spazi, e la sua energia.

La visione Giacomelliana non è completamente tragica, anche se il tragico gli affollava la vita, egli ha quella visione che i greci attribuivano a certi dèi e ad eroi. Esiste una visione dove tutto è fisso, dove l’eternità è immobile, dove nulla deve ricordare il passato e nulla deve presupporre un possibile progresso. L’attimo viene congelato, eternato. Questa è la visione delle divinità dispotiche. C’è poi una visione in preda al tempo, definito a sua volta da Platone “immagine mobile dell’eternità”, è la visione dell’uomo che ha davanti a se la morte, ma che ha imparato ad ignorare la sua sorte mortale. È un uomo lontano dalla natura e dall’essenza intima delle cose. Infine c’è una visione non lineare, ma ciclica, dove tutto è in movimento nel tempo e questo fa sembrare lo spazio attorno contagiato dal sogno, i segni diventano racconto al di fuori del tempo storico.

Giacomelli, che parla alla memoria dell’umanità, che come poeta cerca di risvegliare questa memoria nell’individuo occupato a cercare un senso alla mancanza di senso della nostra singola esistenza e dispiega così al realismo nuove possibilità, il mondo dell’invisibile, il presente disabitato. Il suo è un espressionismo libero dall’immobilità del “qui e ora”, dal tragico senza scampo ed offre così una visione che è quella dell’Eroe che appartiene al mondo degli uomini, ma tende a quello del divino; è la visione del poeta che crea senza distanziarsi dal vero per non perdere in giustizia.

A fasi alterne Giacomelli è sempre stato nell’attenzione di estimatori e detrattori. I primi attratti dal segno anticipatore, forte, difficile, sofferto; i secondi fermi all’epidermide della sofferenza, al tratto solo apparentemente realistico, ingannati dall’uso spregiudicato della tecnica dell’immagine, o dalla trattazione di temi di apparentemente semplice fotogenia. Non c’è alcuna nostalgia nelle foto di Giacomelli, il passato è concluso, ma a forma d’anello con il presente che si confonde nel futuro. La memoria è voce che ci ricorda l’origine, porta con se i presupposti per il quotidiano divenire. Lo possiamo notare anche nelle serie fotografiche; è facile trovare composizioni in più varianti, con foto degli anni ’60 insieme a quelle degli ’80 e ’90. Giacomelli rileggeva continuamente le sue interpretazioni e se occorreva cambiava le immagini, vivificando il suo lavoro, e addirittura ne cambiava la stampa, il taglio.

Dagli anni ’50 Mario Giacomelli realizza reportage sul presente disabitato; reportage particolari costruiti in modo da non concludersi alla fine dell’evento, ma nella visione di chi sta di fronte alla foto, quindi non possiamo ex-cludere dall’interpretazione il mondo dell’Uomo, di colui che non sa più la distanza reale tra se e il resto dell’esistente, un mondo fatto di punti di partenza smarriti, quindi strade piene di gente senza direzione, quindi mete che appaiono irraggiungibili, un miraggio collettivo: in verità siamo solo un riflesso di quello che potevamo essere, non esiste più nulla se non la grafia dell’ultimo osservatore, segni di un linguaggio ottico che raccontano e svelano verità sul mondo attraverso l’immagine d’un sasso, un paio di labbra, un ferro, anche un solo segno nero basta.

Per Mario Giacomelli esiste un “Anima” del mondo, un’unica Energia e ha dimostrato che quando cambia la visione sensibile a Senigallia, cambia anche a New York, come nel resto del mondo e viceversa. Chi è direttamente o indirettamente, e al di là delle indagini psicologiche sulle assenze/presenze del passato, il destinatario causale e sempre occulto, delle fotografie di Mario Giacomelli? E’ colui che dimentica e preferisce la dimenticanza alla verità, spesso  diceva “Tanto anche tu come gli altri dimenticherai”.

I “vecchi” depositati e ignorati, la terra sfruttata, distrutta, coperta e abbandonata, quei segni sulla pelle delle donne, degli uomini e del mondo sono prove inconfutabili, generati dalle nostre paure, dalla colpa d’oblio che ci colpisce e dal profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita che cambia attorno a noi non come noi vorremmo cambiasse, ma con la velocità della materia che imprime trasformazioni di tale portata da costringere lo spirito a inseguirle per prender posizione a trasformazione avvenuta.

Giacomelli non denuncia, racconta sapendo che l’immagine vale più della parola e se in un certo momento nessuno vuole capire non importa, Mario Giacomelli ancor prima di fotografare ha imparato ad attendere, perché è nato da una povertà che l’ha reso signore e si muove nel tempo e nello spazio con lo stesso passo.

C’è in Giacomelli una pietà naturale, prima ancora che cristiana, non distante da essa, solo con uno spettro maggiore che comprende la pietà per le macerie. Il fotografo si da all’altro, al soggetto, elimina la distanza, realizza l’incontro e non solo all’ospizio, a Lourdes, ma con la terra, il mare, i muri delle case, gli animali, i detriti del tempo e i resti del pasto umano (leggi anche: quello che resta del passaggio dell’uomo).
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A un certo punto Giacomelli elimina ogni segno grafico di riferimento per la distanza, perché poi il soggetto dovrà darsi a noi che lo guardiamo scevro da ogni segno che non sia parola del fotografo, una sorta di “rivelazione”: la casetta in collina scompare, l’orizzonte svanisce come luogo, come linea spazio-temporale.
L’orizzonte mitico e fisico da e verso cui il paesaggio si dispiegava come fogli di giornale dove leggere la storia del mondo e dell’Umanità diventa orizzonte contemporaneo, spaventoso e affascinante, investito anch’esso dal flusso traumatico del tempo che insegue Giacomelli. Un orizzonte che il fotografo non sente come raggiunto, ma rapito dal “progresso”, assieme all’Uomo e al resto delle cose. Occorreva quindi sollevarsi da tutto questo, come hanno sempre saputo fare i veri artisti, intesi come creatori. Quale posizione migliore del cielo, se non addirittura quale ruolo migliore?! No, Giacomelli non vuole il posto di Dio giudice, ma da sempre gli parla e alla fine degli anni ’70 sembra quasi accostarsi al suo orecchio e sussurrargli “La vita è un esile spazio, il cielo è così vicino… tutto è fradicio qui, un filo di nebbia ci tiene uniti. La terra è un paravento, piccolo cimitero di clown, materia vuota e pagata. Dio non vorrei lamentarmi, tu forse non sai, quaggiù, ferendo e rimarginando, passano i giorni. Saresti stanco anche tu” e con tutta la sua umiltà chiedergli: perché?”
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Citando Giacomelli : “La fotografia mi ha aiutato a scoprire le cose, interpretarle e rivelarle. “Racconto la conoscenza del mondo in una architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sento tutta la completezza della mia esistenza.”
Sempre ricordando quel che Mario Giacomelli disse: “…Le ferite le mostravo prima, ma la ferita era anche una gioia. Non era una ferita di dolore, era un segno, la cicatrice di un male che si era chiuso, che era guarito. Come quando uno viene operato: non c’è più il male, c’è il segno e basta. Adesso purtroppo è tutto diverso non rimane più niente. Adesso è una terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina…fa tutto. Non c’è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c’è più gioia in chi lavora, in nessuno.”
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Lo scambio di visibilità di segni-segnali testimonia una terribile presa di coscienza sulla natura e sull’uomo: l’uomo è antiquato. Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi. Netto è il confine tra la visione orizzontale e quella verticale nei ritratti al paesaggio. Alla fine della visione orizzontale si crea una sospensione del tempo che partendo dal fondo ci riporta al principio creando un anello di tempo che potremmo chiamare “epoca”, dal greco epoché: sospensione. Una sospensione che si attua prima nella mente del fotografo, poi nella stampa, e nello stesso tempo nella realtà.
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Le vecchine di Scanno sono diverse da quelle di Senigallia, le prime sono sospese, se pur viventi, stanno altrove, in uno spazio concluso, in un tempo perfetto; le seconde stanno tutti i giorni davanti al naso di Giacomelli, sono gli specchi di casa, sono il paesaggio urbano, sono la memoria rinchiusa, per non ricordare “che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa” tutta la vita a costruire se stessi e un senso stando innanzi all’unica previsione possibile: la morte.
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La perdita del punto d’origine compromette il raggiungimento di qualsiasi obbiettivo. Scanno e quei paesi con le radici ancora scoperte ai tempi degli scatti, ricordano al fotografo il senso, la direzione e c’è in quella foto del bambino con aura sicura in un ambiente vibrante e pieno d’ombre un autoritratto dell’umanità ed è forse è per questo che attira lo sguardo di tanta gente.
Grazie ad uno strano fenomeno temporale dovuto alla tensione che sempre si crea tra singolo e “Umanità”, cosa succede? Il fotografo dal presente torna al passato, il bambino dal passato è proiettato verso il futuro, uno di fronte all’altro si compenetrano fornendo realtà uno all’altro e trasformandola tutt’attorno in una sorta di rarefazione nucleare sfolgorante dovuta al flash del fotografo che a qualcuno potrebbe sembrare che risvegli stupore nel bambino-Umanità che mai avrebbe pensato d’essere notato da un semplice “individuo” dopo anni di bestialità in cui l’infanzia dovette nascondersi, negata dal dolore, e peggio: dilaniata dalle mani di ogni singolo individuo che non riconosceva più alcuna Umanità.
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Per questo fotografa prima la morte del padre, dopo la fame, poi la guerra, si nascondeva, dopo che le bombe ebbero sfiorato la sua divisa da soldato italiano (dovette arruolarsi per le minacce contro la sua famiglia) presso il porto di Ancona, i tedeschi lo volevano. Lui stava in campagna nascosto in un pozzo con in testa una tavola di legno e sopra le bottiglie di vino. Lì pensò al dolore che provoca amare l’Umanità e la Vita che genera tali abbagli, come l’uomo. Un altro passo verso la verità: di singolare ed univoco, c’è solo l’Idea, il soggetto è equivoco, potenzialmente un utile riflesso della stessa.
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Da Mario Giacomelli: “Sento l’uomo più nella natura che nel suo ambiente usuale di vita; questa natura non è solo composizione o materia ma è invece la vita dell’uomo con tutti i suoi martìri, con le stesse rughe, con gli stessi calli che ha l’uomo che lavora, che spera in questa terra; un’altra cosa per me importante”
“Il segno nasce visivamente da un gesto e ogni gesto va interpretato, questo vale per l’uomo comune come per l’artista. Il gesto scaturisce da una storia, umana e non; una volta tradotto in realtà non si deve pensare che il gesto sia compiuto; quello che è compiuto è il segno che a sua volta non resta certo inerme, ma più o meno vibrante in relazione a chi l’osserva.” “Sono un viaggiatore di sensazioni in terre sconosciute, dove tutto va interpretato.”
“Le mie foto vogliono illudersi di essere scritture segrete, non belle immagini, non fatte per essere solamente capite, ma interpretate.” “L’immagine… è quello che emerge dal contatto con l’esistenza.”
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Per Giacomelli la fotografia in fondo è un segno, e va letta; e lui riusciva a far leggere le cose, non a darle come semplice immagine, che si potrebbe dimenticare, ma ti invoglia e ti obbliga a leggere. Il tempo è cosparso di segni, così lo spazio, reliquie di qualcosa che è stato, che è e che sarà per sempre, che attirano a se i pellegrini dell’anima, un’energia che da individuale diventa universale e viceversa.
Giacomelli parlerà di natura generante energia e di fotografia come deposito di questa energia. Chiave per attingere a questa forza, a questa potenza vitale, sono i segni, individuati e raccolti; segni sacri per il fotografo, perché lo mettono in comunicazione con l’invisibile e non parlo di mitiche divinità, ma dell’invisibile concreto e quotidiano che distrattamente non ascoltiamo e che l’artificio cerca di scrivere e spingercelo sotto gli occhi.
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Non ci sono allievi di Giacomelli Mario, c’è chi usa il suo nome, chi cerca di riproporre la sua tecnica, ma la vera eredità sono quelle tracce, quelle testimonianze, quelle prove, i segni lasciati sull’Uomo, sulla Terra, e dentro ancora più dentro, dalle stagioni che urtiamo ciechi di fronte al tempo, sono un linguaggio che, anche quando ermetico, vuole stimolare in noi la nascita delle stesse parole, non come ripetizione, ma come conquista; interpretazione quindi, non comprensione. È tutta questione di educazione, ricevuta o conquistata, di rispetto e di umiltà, non calpestiamo gli spazi, abitiamoli, camminiamo negli spazi di Mario Giacomelli, perché sono gli spazi dell’Uomo, sono nostri, facciamolo cercando i mutamenti dei segni umani, anche quelli che ancora hanno inciso solo le nostre idee e partirei dal pretesto d’un soggetto per poi magari giungere all’invisibile tramite stesure di non-colori e i segni della comunicazione profonda. Il pretesto d’un soggetto: perché ho paura, di cosa? da dove sono partito? cosa ho perso lungo il cammino? Quando è successo? cosa ho trovato? come stanno gli anziani, e dove? la terra, è completamente “fatta” a favore dell’iper-produzione? la salute è ancora un miracolo? e il linguaggio, la comunicazione ? nuova e potente, ma mediata, imbrigliata, andrebbe liberata.
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C’è ancora chi possiede l’Uomo e impedisce che si costruisca attorno, perché nulla possa edificarsi dentro, c’è ancora chi non vuole le strade che uniscono i popoli. Le foto di Mario Giacomelli sono arrivate ovunque, anche di contrabbando, anche dove per uno scatto “sbagliato” si rischiava la libertà e la vita. La fotografia può essere letta da tutti questo solo andrebbe ricordato. Le sue immagini documentano un respiro umano, una possibilità di riflessione, un differente modo d’informazione, una forza d’urto, un assorbimento poetico, con una grossa forza di penetrazione, una geografia del sistema di linguaggi, di trasformazione del mondo. Comunicare, ecco quello che riesce a fare il fotografo, dialogare fuori dalle strutture tradizionali, quasi a voler fare entrare in comunicazione, tutta la società. Pensiero e sentimento concorrono alla realtà del quotidiano senza segreti, al di fuori di strutture abituali, come un gesto poetico-artistico, che è anche intervento e segno, tensione ed energia nelle strade, nei muri della memoria.
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Le foto di Mario Giacomelli sono una testimonianza. Sono costate dura fatica. Sono fatte di ragione, di tenace lotta con la tecnica, di sentimento fermo, di fiducia nei valori della poesia.” Con la poesia Mario Giacomelli ha smosso tanta acqua torbida, ha creato spazi eterni da cui ancora ci parla e chi può entrare e uscire da queste estensioni dell’artista sente che fuori il dolore è sempre più evidente e dentro ad ognuno di noi è sempre più in fondo, spinto a calci lontano dalla luce, unica salvezza.
A volte per creare qualcosa da ricordare occorre dimenticare e prima di dimenticare bisogna avere (possedere) qualcosa da dimenticare: la macchina fotografica, le regole compositive, tecniche varie di ripresa e tutto quello che non riguarda la nostra persona e con lei quello che vuole entrare e ciò che vuole uscire, ricordando che non c’è niente che può stare solo fuori o solo dentro. Ecco, la stessa alchimia della camera oscura avviene nella nostra mente, dal fondo appiattito e vuoto, in mezzo a quel visibile, guardato ma non visto sorge l’invisibile, graduale e sottile nel realizzarsi, sicuro nel definirsi, affascinante e violento nel proporsi.
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Citando Mario Giacomelli : “ Sento la necessità di denunciare l’andamento del mondo, le cattiverie, la crudeltà, la disonestà dell’uomo non documentando la realtà, la vergogna dell’uomo, ma dimostrando a me stesso altri spazi, altre tracce dove il linguaggio diventa conoscenza della mia anima e tutto ciò che mi circonda non sia illusione, voglio rivedere ogni cosa nella semplicità dove la mia mente ritorna da capo, dove ogni segno si fa “poesia” per rifabbricare il mio mondo, carico di significati immensi in armonia assoluta con il mio universo e respirare sotto il silenzioso cielo. Nella natura, la sola cosa grande che conosco, nell’incertezza di tutto, io vivo i miei attimi, i miei limiti, i miei difetti, per forza d’ispirazione, di creatività, di linguaggio.”
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I segni comunicano tra loro e le serie “costruite” dal 1982 in poi non sono altro che il dialogo tra i segni in un fluire ininterrotto, offrendo qualche volta ad uno spettatore disattento, un soggetto che faccia da copertura al segreto tra fotografia e fotografo, segreti che nessun critico, se pur vicino e scaltro confidente, può svelare, perché bisognava ascoltare i bisbigli, i gemiti, tra il fotografo e le sue foto messe in sequenza sul pavimento e lui in ginocchio davanti a loro, ad accarezzare segni in secondo piano e poi in piedi, per controllare il buon andamento dei rapporti e avanti e indietro, per dare a tutte una parola.
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Chi vuole affrontare il percorso di Mario Giacomelli non può evitare la conoscenza profonda della cultura artistica del “fotografo”, soprattutto i maestri dell’astrattismo ed il Caravaggio!, poi i pochi fotografi di cui ripetava spesso i nomi: Kertez, Bill Brandt, Koudelka, Cartier-Bresson e in Italia: Monti, Scianna, Gianni Berengo Gardin.
Inoltre va considerato che i dati a nostra disposizione a volte sfiorano la leggenda e che in realtà non esistono serie foto-grafiche concluse, ma immagini pronunciate, quindi capita di trovare e ritrovare in racconti differenti la stessa immagine, oppure racconti le cui immagini, dai ’70 a oggi sono state cambiate più volte , racconti che possono, ogni volta narrati, rivelare la coerenza della personalità creativa versus l’incoerenza e i dubbi che la vita rifletteva sull’uomo Giacomelli.
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Giacomelli prima ancora di dedicarsi alla Fotografia amava scrivere critiche personali al lavoro di alcuni artisti particolarmente conosciuti. Riporto qui alcune righe di uno scritto su Kandisky: “Kandisky si accorse per primo con chiarezza che in pittura la possibilità espressiva può essere suggerita dagli oggetti…ma può anche essere senza oggetti, quando questi non siano più sentiti come necessari per esprimere uno stato d’animo, un sentimento, un idea. Tutti i linguaggi moderni specialmente delle avanguardie più avanzate, più innovatrici si basano sul rapporto tra azione psichica e azione estetica…L’astrattismo non esclude il valore della figurazione, esclude la norma che per fare arte si debba essere soltanto figurativi. Gli astrattisti si sono opposti al verismo, all’abbellimento del vero esterno, alle figure in posa, ai paesaggi ripetuti ormai di maniera. Questi astrattisti hanno voluto dipingere non più il limite, l’apparenza degli oggetti, l’infinito, l’idea, il senso misterioso di rapporti che vanno oltre l’apparenza…Quindi, bisogna liberare l’occhio da tante altre immagini e preconcetti che agiscono su noi come persuasori occulti, che fin dai primi anni dopo l’infanzia, hanno fatto amare immagini banali, esteriori, o frasi come questa: “l’arte è imitazione della natura” o l’arte è cuore, e tante altre simili accettate come dogmi.
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Dopo essersi liberati da questi ingombri che gli offuscano l’occhio, bisogna per prima cosa che si abitui a capire gli impressionisti…, i simbolisti, poi, hanno dato valore allo stato d’animo e non più alla imitazione della natura, poi vengono gli espressionisti, che hanno deformato sempre più la realtà per renderla viva. Vedete quante cose bisogna conoscere e inquadrare nella società in cui quest’arte nasce e vive. È troppo difficile? Non direi: tutti possono arrivarci, ma certamente la libertà del giudizio critico bisogna conquistarsela, perché è una libertà che implica un processo al nostro occhio, a noi stessi e non soltanto all’opera da giudicare.” Mario Giacomelli.
Per questo fotografo l’erotismo non si può confondere con l’Amore o con il Sesso; vi è in essi, ma non si identifica con essi. L’erotico mira alla dissoluzione dell’individuo in favore di una universale appartenenza, di una totale partecipazione. Erotismo per una reperibilità del senso, che altrimenti verrebbe stracciato dal flusso del tempo, divorato dalla morte. Ecco, l’Erotismo ci distrae dalla morte, forse distrae la morte stessa che si lascia accarezzare, che si lascia guardare nella sua nudità perfetta e incomprensibile. L’Erotismo è una forza prestata all’Uomo dal Divino per permetterci di tornare ad uno stato di pre-memoria, per non ricordarci mentre i bambini giocano al mare, gli amanti si amano sotto luci neo-realistiche o nei campi psichedelici, mentre i pellegrini pregano, i contadini lavorano e uccidono il maiale, mentre la terra muore e come lei tutti noi invecchiamo e soffriamo, mentre la luce gioca e racconta, per non ricordarci ciò che in fondo è la nostra esistenza: “qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto” (Nietzsche F.); qualcuno può farmi presente che Eros e Tanathos vanno sempre a braccetto, è vero, ma per esistere hanno dovuto separare i propri tempi e quando sarà il tempo di conoscere la morte, dalla piccola morte alla Morte signora, diamo ad essa, perché solo questo ci è concesso, la nostra individualità salvando così per sempre, noi stessi, l’Umanità, che se pur dolente è la sola potenza a cui possiamo (dobbiamo) rivolgerci su questo pianeta.
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Citando Mario Giacomelli: “Al mondo ci son tanti fetenti, per questo io cerco l’umanità, amo l’umanità, la gente che si riempie d’umanità e non di sé” chiosando con “Sono furbi i gatti…la vita è l’orgasmo più grande, la cosa più bella che ti possono dare e togliere.” “Dell’erotismo si può dire che è l’affermazione della vita fin dentro la morte.”
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BIOGRAFIA
Mario Giacomelli nacque a Senigallia il 1 Agosto 1925 emorì a Senigallia il 25 Novembre 2000

A tredici anni lavorò presso la Tipografia Giunchedi finché non sopraggiunge la guerra, vi ritorna, dopo aver partecipato ai lavori di ricostruzione dai bombardamenti, come operaio tipografo. Nel 1950 decise di aprire una sua tipografia. Nel 1953, Giacomelli acquistò una Bencini Comet S (CMF) modello del 1950, con ottica rientrante acromatica 1:11, pellicola 127, otturazione con tempi 1/50+B e sincro flash. Tra il ’53 e il ’55 iniziò a fotografare parenti, colleghi e amici. In quegli anni frequentò lo studio fotografico di Torcoletti, il quale gli presentò Giuseppe Cavalli , artista e critico d’arte.Sotto la guida di Ferruccio Ferroni e con la supervisione di Cavalli, Giacomelli si addentrò nella tecnica fotografica.

Nel 1954 si costituisce il gruppo fotografico “Misa”. Nel 1955 vinse il Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto.Sono di questo periodo alcune serie dallo stile di reportage come Lourdes (1957), Scanno (1957/59), Puglia (1958, dove tornerà nel 1982), Zingari (1958), Loreto (1959, dove ritorna nel 1995), Un uomo, una donna, un amore (1960/61), Mattatoio (1960), Pretini (1961/63), La buona terra (1964/66). Iniziano le prime pubblicazioni sulle riviste specializzate di Fotografia. Continuando con la sua ricerca, il fotografo iniziò a chiedere ai contadini, pagandoli, di creare con i loro trattori precisi segni sulla terra, agendo direttamente sul paesaggio da fotografare per poi accentuare tali segni nella stampa.Tramite Crocenzi, nel ’61 Elio Vittorini chiede a Giacomelli l’immagine Gente del sud (dalla serie Puglia) per la copertina di Conversazione in Sicilia..

Nel ’63 Piero Racanicchi, che insieme a Turroni è stato tra i primi critici sostenitori dell’opera di Giacomelli, segnalò il fotografo a John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York che scelse di esporre una sua fotografia alla mostra The Photographer’s Eye. L’immagine è tratta dalla serie Scanno.

Nel ’64 Szarkowski acquisirà poi l’intera serie Scanno e alcune immagini della serie Pretini. Nello stesso anno partecipò alla Biennale di Venezia con la serie dell’Ospizio, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sotto l’influsso di Crocenzi, nel ’67 Giacomelli pensò alla realizzazione di una serie fotografica incentrata sul racconto, interpretando Caroline Branson dell’Antologia di Spoon Riverr di Edgar Lee Master, e chiese a Crocenzi di fornirgli un canovaccio da seguire.

Nel 1968 conobbe Alberto Burri, e ne seguì un’attenzione all’informale nell’arte.Nel ’78 partecipò alla Biennale di Venezia con fotografie di Paesaggi. Nel 1980 Arturo Quarto Quintavalle scrisse un libro analitico sull’opera del fotografo, acquisendo una buona quantità di sue opere per il centro CSAC di Parma. Nel 1984 conobbe il poeta Francesco Permuniancon il quale instaurò una collaborazione che dara alla luce le serie Il teatro della neve (1984/86) e Ho la testa piena mamma (1985/87).

Nel 1983/87 crea Il mare dei miei racconti fotografie aeree scattate alla spiaggia di Senigallia . Negli anni ’70/90 Giacomelli fotografò la costa adriatica nei pressi di Senigallia, creando la serie Le mie Marche.Degli anni novanta sono le serie Vita del pittore Bastari (1991/92), Poesie in cerca d’autore, Bando (1997/99), 31 Dicembre (1997).

Mario Giacomelli muore il 25 novembre del 2000 a Senigallia, dopo un anno di malattia, mentre lavorava alle serie Questo ricordo lo vorrei raccontare (1999/2000) e La domenica Prima (2000).
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Per una lettura completa dell’uomo e del fotografo Mario Giacomelli consiglio la lettura di questo straordinario libro di Simona Guerra : La mia vita intera ed. Bruno Mondadori
 
 
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