Posted by on 9 settembre 2014

 
 
 

Intervista di Alessia Glaviano 

per Vogue Italia

Paolo Marchetti, italiano classe 1974, è uno fra i più promettenti fotogiornalisti italiani. Ho conosciuto e intervistato Marchetti a Lodi durante il Festival delle Fotografia Etica dove era in mostra il suo lavoro Fever, un progetto sulla rinascita del fascismo in Europa a cui Marchetti ha lavorato per cinque anni.

Colpisce di Marchetti la quantità di premi e riconoscimenti internazionali ricevuti pur avendo iniziato a fotografare a livello professionale solo nel 2009: The International Photography Award, Grand Prix de Paris, Best of Photojournalism 2012 e 2013, PDN’s Award 2012 e 2013, Sony WPO Award, Getty Images Editorial Photography 2012, finalista al Leica Oskar Barnack Award 2013, ben due premi nell’edizione 2013 del Poyi come Photographer of the Year e per la categoria Issue Reporting Picture Story, Photographer of the Year e vincitore dell’ANI Pix-Palace Award 2013 a Perpignan, LEICA PHOTOGRAPHER AWARD 2013 e per finire altri due premi nel poyi di quest’anno sempre nella categorie Issue Reporting Picture Story e Photographer of the Year.

Conoscevo Marchetti sopratutto per il suo lavoro Fever, un reportage davvero maturo e completo in cui il fotografo è stato capace di non cadere in facili cliché. Osservando le immagini che compongono Fever risulta subito evidente che Marchetti non ha mai un atteggiamento giudicante quanto invece di ricerca, una ricerca delle matrici del comportamento umano: in Fever c’è l’odio ma c’è anche l’amore, c’è la rabbia ma c’è anche l’umanità.

Le immagini sono estremamente risolte a livello compositivo, potenti e cinematografiche: una peculiarità di tutto il lavoro di Marchetti, che siano immagini a colori o in bianco e nero, che siano le fotografie dei fascisti, quelle del suo Brasile – paese cui è molto legato – i malati di mente del Kerala o le gang di Haiti.

È vero che Marchetti ha iniziato la sua carriera professionale tardi, ma con il bagaglio culturale e tecnico di chi ha lavorato al fianco dei più grandi direttori della fotografia del cinema internazionale per circa 13 anni. Infatti, pur avendo amato la fotografia sin da bambino, la sua storia inizia nel cinema, in cui ha fatto carriera salendo le diverse gerarchie del reparto preposto alle cineprese, per poi lasciare tutto per quello che lui definisce “un amore più grande”, la fotografia, rapito dalla potenza e dalla capacità di sintesi dell’immagine fissa: “trovo incredibile come una sola fotografia possa farti pensare a volte più di un’ora e mezza di ripresa video.”

Più volte nel corso dell’intervista Marchetti insiste sulla responsabilità che sente nei confronti dei soggetti che fotografa, sull’importanza di entrare in relazione e sulla sacralità di questa relazione. Ad esempio per Fever, il suo progetto a più lungo termine, ha trascorso dei mesi con i fascisti senza nemmeno portare la macchina fotografica e ha iniziato a scattare solo quando ha capito di aver guadagnato la loro fiducia e che la sua macchina fotografica sarebbe passata inosservata: li ha fotografati senza porre filtri, né ideologici né culturali, con l’obiettivo di restituire un documento trasparente della loro vita. Direi quindi che la cura con cui il fotografo restituisce la sua visione del mondo è in parte conseguenza della responsabilità che sente nei confronti dei suoi soggetti.

Parliamo di etica, un tema cui Marchetti tiene molto, essendo convinto che l’etica, più che legata a una professione, è inerente alla persona. Per Marchetti fotografare è un modo per conoscere se stesso, una sorta di auto analisi. Mi racconta che Fever è nato da una sua intima esigenza di indagare il sentimento della rabbia, che in questo specifico caso si esprime a livello politico ma che è un emozione che riguarda tutti noi e che pervade sempre più la società contemporanea. Marchetti ha toccato un argomento, quello dell’ascesa del fascismo in Europa, di pressante attualità, producendo un documento estremamente prezioso per indagarne le origini e le motivazioni, che sono spesso da ricercare nella paura della diversità – amplificata dalle pressioni migratorie e dalla crisi economica – e, a livello più antropologico, nel bisogno di appartenenza a un gruppo per la costruzione di senso e di identità. Il gruppo quale individuo totalizzante, che assolve la funzione di un superuomo nietzschiano in cui perdere la propria autonomia intellettuale e ideologica, uno scudo per affrontare il mondo – ma anche per non dover affrontare se stessi.

Il fascismo non è il cuore del mio lavoro, è un pretesto. È stato il pretesto per raccontare qualcos’altro. Per raccontare persone che vivono nella mia società, il mio paese, l’Italia ma anche fuori: l’Europa. L’ho fatto visitando diverse fazioni fasciste. Ho riscontrato spesso una modalità diversa, ma la stessa necessità. Ma è la stessa necessità che io riscontro anche in altri contesti e non riguarda solo la rabbia ma anche l’appartenenza, il bisogno di avere un nemico, il sentirsi parte di qualcosa: le generazioni più vulnerabili e più giovani sono affascinate dall’appartenenza, ce lo racconta lo stadio, ce lo raccontano le mode, ce lo raccontano un sacco di fenomeni sociali. E questa fascinazione la trovo naturale, perché se al giovane togli la rabbia, gli hai tolto tutto: lo trovo anche opportuno, giusto. Però si deve trasformare.”

DI ALESSIA GLAVIA

 

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