Posted by on 29 ottobre 2016

 
 
 
“Per me, fare una fotografia era fare un anti-fotografia.” di Paola Palmaroli 
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William Klein nasce New York nel 1928. La sua vita, trascorsa fra l’ Europa e gli Stati Uniti, fu all’insegna dell’anticonformismo : scultore, pittore, regista e fotografo, trascorse la sua infanzia a New York dove come figlio di una famiglia ebrea in un quartiere irlandese, ebbe modo di sperimentare negli anni trenta l’antisemitismo dilagante negli Stati Uniti.
I suoi amici raccontano che fin da ragazzino rifiutava la cultura di massa e lo descrivono come sarcastico, brillante ed amante dell’ arte.
Fin dall’età di 12 anni fu un assiduo frequentatore del museo dell’arte moderna, il MoMa. A 14 anni, tre anni prima della norma, si iscrisse al City College di New York per studiare sociologia. A 18 si arruolo’ nell’esercito americano e servì in Francia e Germania come radio operatore, prima di concludere gli studi.
Nel 1948 si iscrisse al Sorbonne di Parigi dove studiò con due grandi personalità artistiche come Andre’ Lothe e Fernand Leger. Leger in particolare fu un grande ispiratore per Klein, durante le sue lezioni incoraggiava i propri studenti a a rifiutare e sovvertire il conformismo ed i valori borghesi che dominavano il mondo dell’ arte di quel periodo.
In quegli anni si sposò con Jeanne Florin e decise di stabilirsi a Parigi, dove tutt’oggi risiede. A Parigi sperimentò il linguaggio della scultura e della pittura nella scultura ispirandosi a alla Bauhaus, a Mondrian e a Max Bill. Nel 1952 giunse a Milano dove diresse due spettacoli teatrali al “Piccolo”. Nello stesso anno iniziò a scrivere per la rivista di architettura “Domus”. In quegli anni, che precedono il suo ritorno a New York, inizia a sperimentare anche con il mezzo fotografico, e si guadagna l’appellativo di “anti-fotografo”. Ispirandosi a Moholy-Nagy e Kepes, cominciò a giustapporre pittura astratta e fotografia.
Klein era nato a New York, ma dopo sei anni in Europa il suo punto di vista sulla citta’ si era trasformato in qualcosa di ibrido fra lo sguardo di uno straniero e quello di un autoctono. “Mi comportavo come un etnologo immaginario”, racconta Klein. “ Trattavo i newyorchesi come un esploratore tratterebbe una tribù africana. Cercavo scatti che fossero grezzi, il “grado zero” della fotografia”.
Come regista realizzò oltre 20 film, fra cui il primo documentario in assoluto su Muhammad Ali’.
Le prime forme d’arte che appassionarono William Klein furono il disegno e la pittura. Fin da giovane, nel corso della sua prima esperienza a Parigi, entrò quasi subito in rotta di collisione con i personaggi e i galleristi che avrebbero potuto offrirgli la possibilità di ottenere successo. Da quel momento la sua carriera, fino a quando non divenne famoso, si configurò procedendo su due binari: da un lato si piegò a svolgere routine di lavoro professionali dal risvolto commerciale; dall’altro le risorse incassate venivano immediatamente investite in progetti creativi nei quali l’autore riversava il suo talento libero da qualsiasi costrizione.
Quando intorno al 1954 a New York, Alexander Lieberman, celebre art director di Vogue, vide alcune foto di William Klein, immagini molto lontane dagli standard della foto di moda del periodo, intuì subito le potenzialità del giovane talentuoso fotografo/artista e nonostante il carattere ribelle di quest’ultimo, gli propose un contratto particolare, dando così prova di una sensibilità non comune tra chi operava nell’editoria di moda. Lieberman era in quel momento il direttore creativo della più importante rivista di moda del pianeta, amava l’arte e si faceva tentare dai territori dell’immaginario estremo definiti avanguardia.
William Klein doveva collaborare con Vogue fornendo “contributi diversi” alla testata. In cambio avrebbe avuto un buono stipendio e inoltre Vogue avrebbe sponsorizzato un suo progetto creativo senza alcuna interferenza. Molti anni dopo, ricordando quei giorni probabilmente molto più decisivi di quanto amasse riconoscere, William Klein scrisse che la sua vita creativa nella fotografia era cominciata con uno sdoppiamento. C’erano giorni in cui girava come un “flâneur” ( termine reso famoso dal poeta francese decadentista Charles Baudelaire che indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, provando emozioni nell’osservare il paesaggio) per le strade di New York alla ricerca di soggetti che fossero fotografabili ed al tempo stesso si trasformava nella sperimentazione di modi del fotografare utili per definire un suo stile. Altri giorni li passava lavorando in uno studio fotografico super attrezzato, nel quale faceva “nature morte” di scarpe, rossetti e abiti.
Per le foto di strada aveva scelto un piccola Leica di seconda mano, due obiettivi e una strategia che sarebbe piaciuta molto al Baudelaire de “Il pittore della vita moderna”: passeggiate solitarie, punteggiate da centinaia di scatti minimi che definiva fotografia povera (scatti fatti senza fare calcoli o avere attenzioni estetiche particolari).
In studio invece, le sue foto dovevano essere sottoposte a un controllo estenuante. Le sorgenti luminose dovevano risultare perfette per definire con efficacia i contorni o la consistenza degli oggetti di moda da promuovere. La ripresa di abiti indossati implicava un certo modo di relazionarsi empatico con la modella. Il contesto dell’immagine non sempre poteva ridursi all’essenzialità che indubbiamente, soprattutto in quella fase, amava. Come evitare ciò che ai suoi occhi appariva tutto sommato banale e un po’ ridicolo? Forzando la sua natura, poco incline a prendere sul serio il teatrino della moda, grazie a una disarmante ironia, resa penetrante da eccellenti idee grafiche e da una risoluzione tecnica impeccabile, William Klein fece finta di adeguarsi agli standard imposti da Vogue. Si piegò all’obbligo di riprendere abiti valorizzandone forme e dettagli, riservandosi però una grande libertà di decidere pose, situazioni, contenuti. Le redattrici arrivavano in studio dopo essersi eccitate alle sfilate degli stilisti, implorandogli di fotografare quell’abito piuttosto che un’altro. William Klein non poneva problemi e prontamente le accontentava, anche se la significazione dell’immagine gli appariva aberrante o ridicola. Come molti intellettuali e artisti della sua generazione, nutriva un sincero disprezzo nei confronti degli eccessi passionali tipici dell’ambiente professionale della moda, sostanzialmente risolveva le irritazioni che ne derivavano, dicendosi che in definitiva Vogue gli offriva la possibilità di guadagnare facilmente molto denaro da investire nelle sue attività artistiche e sperimentali. Tuttavia, analizzando il suo lavoro da fotografo di moda, durato all’incirca 10 anni (dal ’54 al ’64), si può osservare come ciò non corrisponda al vero e che l’idea del suo stile specifico fosse da ricercare solo nelle immagini di stright photography ( La straight photography è un movimento fotografico che si propose di riprodurre in maniera obiettiva la realtà senza l’ausilio di alcuna implementazione tecnica, nacque nella prima metà del Novecento in risposta alla corrente del pittorialismo) e che di conseguenza le sue foto di moda seguissero grosso modo gli standard del periodo.
Naturalmente le seconde erano ben lontane dall’effetto “speed”, instabile e mosso delle foto di New York culminate nel suo primo libro intitolato “Life is Good and Good for You in New York: Trance Witness Revels”. L’idea creativa del testo si basava sulla sperimentazione dello sguardo fotografico inteso come qualcosa di completamente autonomo dalla coscienza del fotografo. Sostanzialmente, William Klein immaginava che aumentando la velocità di risoluzione del gioco integrato puntamento/scatto, le cose davanti all’obiettivo si imprimessero sul negativo in modo molto diverso dalle nostre aspettative. La libertà (dai codici visivi riconosciuti) avrebbe permesso alla fotografia di evitare stereotipi e di marcare la differenza di un atto fotografico capace di cogliere le tracce di un reale altrimenti impossibile, e al tempo stesso di evocare la scintilla inconscia che aveva portato il soggetto a fermarsi di fronte a una “domanda” mai pervenuta alla coscienza. Chiaramente, la messa in scena necessaria alla moda escludeva a priori il piccolo vangelo fotografico maturato da William Klein. Ma se osserviamo con attenzione gli scatti memorabili che malgrado la rigidità del contesto riuscì a farsi pubblicare, non posso evitare di cogliere nella forza e nella durezza dei contrasti, nella crudezza con cui l’obiettivo riprende modelle, abiti, situazioni, nel gioco delle inquadrature, nelle geometrie delle forme, nell’eccezionale pregnanza grafica di molte delle foto di moda di William Klein, una somiglianza di famiglia con i giochi visivi delle sue famose foto dedicate alle città (New York, Mosca).
La tecnica del racconto oculare poi filtrerà altre città: dopo New York, Mosca ci saranno e Roma,Parigi e Tokyo. È lo sporco, l’insudiciamento della vita che darà senso ai suoi scatti. Le foto di moda non saranno sterili e apatici fermi immagine, ma energia condensata, e ancora trasudante verità. Quindi se è vero che il suoi libri dedicati alle città citate fecero scalpore e lo consacreranno come un maestro per le generazioni successive di fotografi anche il suo lavoro nella moda provocherà una piccola rivoluzione, dando coraggio e audacia a tanti giovani fotografi che, dopo di lui, in modo eterogeneo si appelleranno alle sue invenzioni per rendere più creativo e libero un genere fotografico sempre a rischio di stereotipia malgrado i continui riferimenti al “nuovo”.
William Klein oltre ad avere uno spirito d’artista ed essere un eccezionale fotografo amava il cinema d’autore e fin da giovanissimo si sentì proiettato verso questa forma d’espressione. Quando ne ebbe la possibilità si dedicò alla realizzazione di lungometraggi che riflettevano le sue convinzioni artistiche. Maturò uno stile di ripresa “diretto”, marcato dai forti contrasti in bianco e nero, dalla sintassi originale e caratterizzati da una non comune inventiva. Anche in questo caso mise a disposizione di aziende il suo talento, per potersi finanziare film e scegliere senza nessuna pressione esterna. Alcuni dei suoi spot commerciali, oltre 250, godono ancora di una grande reputazione tra gli addetti ai lavori. Per quanto riguarda i suoi lungometraggi c’è da aggiungere che furono subito considerati dei geniali capolavori. È altresì vero che quando furono messi in circolazione trovarono consensi adeguati solo tra i cultori dell’avanguardia creativa.
William Klein è uno dei rari grandi autori di film che non ha mai ricevuto la qualità (e la quantità) di attenzioni critiche che meritebbe. Per esempio, “Qui éte-vous Molly Magoo?” (1965/66) è un film-docu-metraggio geniale che cambiò la visione sulla moda. Quando si incontrano creativi del calibro di William Klein il primo effetto sconcertante è il senso di vertigine causato dalla perdita delle distinzioni tra generi: è una fiction o un documentario? È una parodia della moda oppure è qualcosa che è più reale di ciò che la realtà rappresenta? La ricostruzione grottesca delle situazioni moda e della famiglia borghese contenute nel film citato è una narrazione quanto mai salutare per il settore, deplorevolmente incline a prendersi troppo sul serio. Purtroppo non la pensava allo stesso modo Diana Vreeland quando assunse la direzione di Vogue intorno al ’64. Vedere il suo mondo massacrato dalla visione surreal/dadaista del regista, andava oltre la proverbiale ironia della direttrice.
I rapporti con William Klein si fecero molto tesi e il fotografo lasciò la redazione. Il fotografo/regista tornò ad interrogarsi sulla moda nel 1981 con Mode in France, e nel 1993 con In & Out of Fashion. Lungometraggi notevoli per l’originale montaggio (soprattutto il secondo) e per la fattura delle inquadrature ma ad entrambi mancava la meravigliosa e tagliente inventiva di Molly Magoo.
William Klein si è sempre considerato una della figure più  anticonformiste della fotografia americana del dopoguerra, ovvero un outsider. La sua opera opere minò alle basi l’oggettività della fotografia, sovvertendone canoni e sovrastrutture ormai consolidati, senza mai l’obbiettivo di affermare un nuovo gusto o standard pre-definito. Nel periodo in cui lo sguardo “armonico” di Henry Cartier-Bresson dettava legge, Klein si dedicava ad una sperimentazione formale e contenutistica che ribaltava ogni regola di composizione, messa a fuoco e qualsiasi altra tecnica fotografica. “Mi piacciono le foto di Cartier-Bresson, ma non mi piace il suo insieme di regole. Così le ho invertite.
Penso che la sua visione della fotografia, che deve essere obiettiva, sia una sciocchezza.” affermava. Curiosamente Klein scattò molte delle sue foto con una macchina fotografica comprata proprio da Cartier Bresson, mostrando quanto in fotografia autori differenti possano dare risultati completamente diversi utilizzando lo stesso mezzo. Le sue immagine non sono quasi mai pulite ed ordinate, ma fuori fuoco, mal composte, tagliate…Eppure dotate di una carica e di una vitalita’ che sconvolse un’intera generazione di fotografi. Qualsiasi cosa fosse considerata “errore” dalle correnti fotografiche più importanti del tempo, lui riusci’ a trasformarlo in nuovo metodo espressivo. “Per me, fare una fotografia era fare un anti-fotografia.” affermava W.K. Considerava inutile, o almeno esagerata, l’ossessione per la tecnica che caratterizza ancora oggi tanti fotografi. La bellezza di una foto per Klein non dipendeva dal filtro o dalla lente giusta: “Il filtro giusto, la pellicola giusta, la giusta esposizione – non erano argomenti che mi interessavano molto. Ho avuto una sola fotocamera per iniziare. Di seconda mano con due lenti e senza nessun filtro. Quello che mi interessava era immortalare qualcosa sulla pellicola per poi passarla sotto il mio ingranditore, magari per ottenere un altro quadro.” racconta W.K.
Tra il’55 ed il ‘65 fu infatti anche fotografo di moda. Non essendo molto interessaato da questo ambiente, sfruttò l’opportunità  per sperimentare nuove tecniche fotografiche, e introdusse in questo campo l’uso del grandangolo, l’esposizione multipla, e l’uso congiunto di lunghe esposizioni e flash, trasformando la fashion-photography in un’ area ad alto livello di sperimentazione.
Ma la sua vena piu’ anticonformista si espresse soprattutto nei reportage di street photography che realizzò a New York, Tokyo, Roma e Mosca. Il libro che lo porto’ alla ribalta come fautore di un nuovo linguaggio fotografico fu “ Life is Good and Good for You in New York”, che pubblico’ quando gia’ faceva il fotografo per Vogue.
Questo libro viene considerato da molti come la l’opera fondativa della street photography, e fu e premiato con il Premio Nadar nel 1957. E’ un libro che, di nuovo, rifiuta i compromessi finora accettati dalla fotografia: rappresenta le persone piu’ umili nella loro vita quotidiana, le foto sono crude , spesso fuori fuoco, volgari ma piene di vita. Ne risulta una citta’ sporca e trascurata, lontana anni luce dalla New York scintillante di Manhattan. Ovviamente il pubblico e la critica inizialmente accolsero il lavoro di William Klein con sentimenti contrastanti. Kein racconta cosi’ i suoi primi passi nel mondo della fotografia: “ All’inizio degli anni ‘50 non riuscivo a trovare un editore americano per le mie immagini di New York. Tutti quelli a cui mostravo le mie fotografie commentavano: Questa non è New York, troppo brutta, troppo squallida e troppo unilaterale! Dicevano anche: Questa non e’ fotografia! Questa è merda !”. Sorprende come un uomo capace di una street photography cosi’ “rabbiosa” ed aggressiva, sia stato capace anche di dedicarsi con grande successo alla fotografia di moda, tanto da essere considerato uno degli autori di punta di Vogue.
I suoi reportage lo portarono in diverse metropoli del mondo , tra cui Roma. Parliamo della Roma della meta’ anni ‘50, la Roma del grande cinema e del boom economico. Klein ha la possibilità di viverla al meglio, introdotto nella città dall’elite culturale del momento. Arriva in a Roma invitato da Federico Fellini per fare da aiuto regista ne “ Le notti di Cabiria”, e sarà proprio il grande regista a fargli da cicerone nella città eterna. Ma non solo: a guidarlo nel centro e nelle periferie romane si alterneranno anche Pasolini, Flaiano, Moravia. William Klein contraccambia realizzando un magnifico affresco della città e della sua gente che raccogliera’ nel libro “ Roma+Klein”, pubblicato da Feltrinelli nel 1959 e recentemente ripubblicato da Contrasto. In questo periodo ebbe modo di conoscere anche Sophia Loren, che dirà di lui : “Klein ha occhi come coltelli. E’ spietato e scandaloso ma non è mai cattivo. E’ tenero e buffo e violento e, sono sicura, profondamente innamorato di questa nostra pazza Roma”.
È stato il maestro della sperimentazione, ha fatto tutto ciò che era non convenzionale, soprattutto quando si trattava di dettagli tecnici. Racconta: “Ho sempre amato il lato amatoriale della fotografia, fotografie automatiche, fotografie accidentali con composizioni non centrate, tagliando teste, gambe, qualsiasi cosa”.
Klein ha usato spesso tempi di posa lunghi per dare un effetto di movimento e di confusione alle sue immagini. Alla domanda sul perché l’utilizzo dello sfocato nelle sue fotografie, Klein rispose: “Se si guarda attentamente la vita, si vede sfocato. Scuoti la tua mano quando scatti. La sfocatura è una parte della vita. Personalmente penso che ognuno debba scegliere il proprio stile, fate quello che vi piace fare e non smettete mai di sperimentare!”.
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