Posted by on 21 gennaio 2017

 
 
 

di Tania Piazza

Mio zio me l’aveva costruita in un pomeriggio d’estate, mentre, come sempre in quel periodo della nostra vita, eravamo fuori, sulla strada. Non esistevano ancora computer e passatempi elettronici e io e i miei cugini eravamo soliti tirare sera inventando ogni volta nuove avventure, tutte rigorosamente on the road. Quel pomeriggio, però, lo ricordo in particolare, perchè la nostra fantasia aveva dato il meglio, sfornando il gioco passato poi alla storia come “la salumeria di Gianni”: avevamo girato a testa in giù una delle biciclette con cui scorrazzavamo nel quartiere in cui abitavamo, ancora in costruzione; il salumiere di turno, facendo girare il pedale della bici, assottigliava degli steli d’erba passandoli in mezzo ai raggi delle ruote e alla fine del suo lavoro vendeva la “bistecca di prosciutto” così pronta da cucinare, ben sottile e morbida. Ricordo che quello era il ruolo di mio cugino più grande, l’inventore stesso del gioco: era questa la nostra regola, chi inventava aveva sempre la prelazione sul ruolo d’onore. Noi piccoli, dovevamo andare in cerca dell’erba giusta: doveva essere lunga il più possibile, e il più possibile colorata del verde vivo della primavera appena finita. E profumata, anche, perchè una volta passata tra i raggi, il suo odore si sprigionava nell’aria adiacente al banco di lavoro e il salumiere si pregiava con i suoi finti clienti della qualità sopraffina della finta carne che vendeva.

I miei cugini stavano tutti nell’orto della zia, tra le piante di pomodoro e quelle di melanzane: sembravano aver trovato un grande giacimento di ottima materia prima. Io, un po’ vinto e un po’ invidioso della loro fortuna, mi ero spostato verso il garage, seguendo il breve sentiero che conduceva le macchine dalla strada all’ingresso dello stesso, dove lo zio era solito svolgere i suoi lavoretti pomeridiani. Non ci era mai stato concesso entrarvi da soli: era molto geloso delle sue cose e delle sue invenzioni. Aveva costruito delle mensole di legno che tappezzavano due delle tre pareti in muratura della stanza. Sopra, vi era ogni tipo di diavoleria avessimo mai potuto immaginare. Aveva ragione, lo zio, a non lasciarci entrare quando lui non c’era!Le nostre fantasticherie di bambini vertevano tutte sugli strani attrezzi che avevamo visto posati su quelle mensole: a noi sembravano oggetti dai superpoteri, che ci avrebbero portato in mondi nuovi e divertenti, dove fare la guerra tra alieni con armi mai viste prima o fingere di essere alla guida di astronavi gigantesche; allo zio, non sembravano altro che quello che erano: seghe di ogni misura, martelli, chiodi, trapani, e così via. Tutte cose, insomma, con le quali avremmo potuto farci molto male, data la nostra giovane età e la nostra sterminata quanto avventata fantasia.

Con gli occhi ben puntati a terra alla ricerca dell’erba giusta, poco alla volta mi ero ritrovato all’ingresso del garage, davanti alla porta chiusa. Dall’interno, giungevano dei rumori: ero sicuro che lo zio fosse al lavoro. Ricordo di aver tentennato un attimo, gettando uno sguardo ai cugini che vociavano in mezzo all’orto, ma poi la curiosità aveva vinto: avevo bussato piano, quasi per paura di un rifiuto. Dopo qualche secondo, era venuto ad aprire, coperto di segatura dalla testa ai piedi. Non c’era stato bisogno di parole, e dopotutto lui non era uno che le parole le sprecava. Avevo sempre pensato che io fossi il suo preferito, tra i cugini, e da quel giorno ne fui orgogliosamente sicuro: mi aveva fatto cenno di entrare e aveva richiuso la porta alle nostre spalle. Io ero rimasto sull’uscio, incantato, trattenendo il fiato. Era la prima volta che mi trovavo da solo con lui, lì dentro: per quanto ne sapevo io, i bambini non erano ammessi e le uniche visite che ci erano state concesse erano quelle da lui guidate, in occasione delle feste di compleanno che con i cugini organizzavamo nel cortile della loro casa. Era passato forse qualche minuto prima che mi riprendessi e gli chiedessi a cosa stesse lavorando. Aveva dei pezzi di legno sul tavolo da lavoro ricavato nell’angolo, e mi sembrava che stesse cercando di far nascere una forma.

“Una cornice magica”, mi aveva risposto, dopo una pausa di silenzio. “Sono sicuro che non ne hai mai vista una così”, aveva aggiunto poi, sorridendomi enigmatico. Per un po’, ero rimasto zitto, cercando di trovare dentro di me la soluzione a quelle parole, che mi sembravano già un rompicapo. Come lui, dopotutto. Gli si addicevano proprio. Ma, come ogni bambino sa ben fare, non riuscii a tacere per molto: la mia curiosità ebbe la meglio, e ancora, a distanza di più di quarant’anni, la ringrazio, perchè forse, se non avessi proseguito con le domande, stamattina non avrei fra le mani questa vecchia meraviglia. Gli avevo chiesto spiegazioni sul perchè fosse tanto speciale e che cosa avesse di diverso rispetto alle altre, che avevo visto appese ai muri delle nostre case con le nostre fotografie all’interno. Prima di tutto, lui mi aveva fatto promettere di mantenere il segreto, perchè quello che stava per confidarmi era molto importante. In quel momento, allora, mi ero sentito grande, molto di più dei miei cugini che fuori di lì stavano cercando della stupida erba; grande quasi come il più vecchio di noi, che stava facendo il finto salumiere con la bicicletta, in attesa di vendere ancora della finta carne. Una volta uscito dal garage, avrei sicuramente potuto chiedere di prendere il suo posto, in virtù della forza e della sicurezza che mi dava l’esser parte di un segreto di un adulto come lo zio.

Dopo averglielo giurato, queste furono pressapoco le sue parole: “Con questa, vedrai le cose da una prospettiva diversa, una prospettiva magica. Quando ti sembrerà di essere davanti a uno spettacolo unico, quando penserai che davvero ne vale la pena, dovrai posarcela davanti, e riguardarlo attraverso essa, contornato da essa: questo ti permetterà di fissarti nel cuore gli episodi che più ti sembreranno significativi, come si fa con le fotografie, perchè ricordati che nella vita ciò che ora ti sembra impossibile perdere, andrà comunque perduto. La colpa è della memoria, innanzitutto, che è una brutta bestia e che lavora solo quando ne ha voglia, e non lo farà sempre a comando, come tu desidereresti. E dell’anima, poi, e qui è tutta un’altra storia. Lei nasce bianca, pura e pulita, come quella che hai tu, ancora, e i tuoi cugini là fuori, come te. Ma con il tempo, con la vita, essa muterà. E diventerà sempre un po’ più sporca, perchè le cose della vita stessa, anche se tu non lo vorrai, la porteranno ad arrabbiarsi, a volte, o a deludersi, altre. Sarà anche felice, di sicuro. Ma il suo colore cambierà, divenendo un po’ opaco. Il suo sguardo non ti farà cogliere sempre la bellezza dove c’è, perchè probabilmente sarà un po’ stanco. Tu, avrai però uno strumento magico: questa cornice. Usala quando il tuo cuore perderà qualche battito per lo stupore, usala quando si fermerà un attimo, per rabbia o per lacrime di felicità. Quando ti sembrerà di scorgere un filo di bellezza nascosta tra le cose, le persone, gli animali, la natura, il cielo, anche se ti sentirai l’unico a vederlo. Metticela davanti, e riguarda il panorama: così avrai una visione unica, indimenticabile, e dentro di te, in un posto che solo tu conoscerai, rimarrà per sempre quel momento, che altrimenti avresti forse perduto nel tempo.”

Ero uscito da quel garage solo quando la cornice era stata terminata, ma l’avevo lasciata là, forse per paura, con dentro agli occhi una vaga immagine di un’anima – anche se non sapevo ancora bene che forma avesse – di colore bianco, che piano piano diventava marrone. Per qualche tempo, poi, quella stessa immagine mi aveva seguito nel sonno all’interno di sogni molto sconclusionati, ma non avevo mai avuto il coraggio di chiedere di più allo zio. E tutto era finito così, con il ritorno poco alla volta a sonni regolari e non più tormentati, e io e i miei cugini a giocare senza pensieri nel solito cortile. Non vi era più stata occasione per me di stare dentro al garage da solo con lui, e io non avevo fatto parola a nessuno di quello che mi aveva detto. Credo che il mio silenzio fosse dovuto più a una forma di vergogna, che a un vero e proprio atto di fedeltà nei suoi confronti: temevo che i miei cugini mi avrebbero preso in giro, perchè quelle parole erano così strane che nessuno di noi sarebbe riuscito a decifrarle.

E’ stato solo alla morte dello zio che ho messo piede nuovamente nel suo garage. In un altro pomeriggio, molto tempo dopo quello della cornice, mentre dentro casa i miei parenti cercavano di consolarsi a vicenda per la sua improvvisa scomparsa. Io, invece, cercavo non so che. Ero in giardino, dove anni prima c’era l’orto delle erbette lunghe e profumate. Il mio sguardo vagava triste e senza indugio era giunto alla porta del garage. Ci sono entrato come se fosse la cosa più logica del mondo. Ho posato gli occhi sulle mensole, sugli attrezzi, sul banco da lavoro, tentando forse di recuperare qualche briciola della presenza dello zio, qualcosa che fosse rimasto intrappolato lì dentro, nel tempo. Poi, appesa in alto a sinistra, l’ho vista, impolverata e con un’aria quasi dolente, e non ho avuto dubbi. E’ stato altrettanto naturale prenderla, e portarmela finalmente a casa.

Da allora, questo è quello che faccio: la custodisco nel bagagliaio dell’auto, sotto allo scomparto nel quale conservo la ruota di scorta. Nessuno l’ha mai vista, nè mia moglie nè i miei figli. Mi piace saperla lì, è come se dentro a quella cornice vi fosse racchiusa l’anima dello zio, e ora, a distanza di tempo, ho imparato che l’anima ha la forma che vogliamo darle. Per me, la sua ha una forma quadrata, anche se non geometricamente perfetta, perchè gli anni passati fanno vacillare i chiodi che lo zio aveva piantato sul legno e a volte i quattro pezzi che compongono la cornice si muovono, a seconda di come la prendo. Ho tenuto fede alla promessa muta che gli ho fatto quel pomeriggio. E credo finalmente di aver compreso il profondo significato di ciò che voleva dirmi. La mia anima non è più così bianca; è stanca, a tratti, e un po’ cieca, a volte. Ma un barlume di purezza vi è rimasto dentro. Ed è proprio nei momenti in cui quel barlume esce, che la cornice magica mi aiuta. L’ho usata quando sono nati i miei figli, per osservare il loro viso mentre dormivano, a letto, di notte, mentre nessuno poteva vedermi; l’ho usata con mia moglie, per incorniciare il suo respiro calmo e rassicurante, mentre sognava a fianco a me, nella nostra camera. Ma l’ho usata anche quando ho scorto un capriolo saltare sull’erba, in campagna, o mentre i nostri cani giocavano felici, in giardino. L’ho usata nei giorni di nebbia, per racchiudere la magia del paesaggio in un momento che è rimasto cristallino nella mia memoria. E la uso oggi, davanti a questa incredibile alba colorata, che, pur sembrando uguale a tante altre, porta in sé il segreto della vita che scorre, giorno dopo giorno.

Come mi ha insegnato lo zio, prendo la cornice e la pongo davanti a ciò che mi sta di fronte. Poi, guardo di nuovo il paesaggio e me lo imprimo nella memoria. Ai miei figli, un giorno, lo dirò. Che trovino anche loro una cornice magica. Che imparino a vedere con l’occhio della meraviglia e non con quello della consuetudine. Che vivano con la magia dentro. Proprio come faceva lo zio.

 

PH. IVANO MERCANZIN